Chapter 1: Riassunto Atto 1
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Riassunto The Winds of Freedom - Atto 1
Un giorno apparentemente tranquillo a Mondstadt viene spezzato da un attacco devastante dell’Abisso, che culmina con la cattura di Venti. La città scopre così che il loro Arconte è in realtà Barbatos.
Venti subisce torture fisiche e psicologiche senza sosta, mentre Mondstadt lotta per reagire, salvare il suo Arconte e ricostruire la città gravemente danneggiata.
Dopo mesi di prigionia, Venti, ormai allo stremo, risveglia un potere nascosto dentro di sé e abbatte gran parte delle forze dell’Abisso. Nel frattempo, Jean, Lisa, Diluc, Kaeya, Albedo, Vanessa, Zhongli e Xiao riescono a raggiungere il mondo abissale e liberare Venti, che perde i sensi per lo sforzo.
Il recupero è lento e doloroso: Venti affronta incubi e attacchi di panico, ma trova conforto e un legame speciale con Xiao.
Tuttavia, il suo potere temporale sfugge al controllo, causando danni anche ad Aether. Spaventato, Venti contatta sua madre Istaroth, scoprendo che lei ha collaborato con l’Abisso per risvegliare quei poteri dormienti in lui.
Nonostante il rancore, Venti è costretto a chiedere il suo aiuto, imparando a dominare il tempo grazie a Istaroth.
Celestia percepisce il risveglio di questo nuovo potere e, dopo indagini, identifica Venti come la fonte. Figlio di Istaroth e discendente diretto del Primordiale, Venti appartiene a una famiglia antica e rivale dei Nove Principi Celesti, discendenti del “Secondo che venne”, dominatori di Teyvat .
I Principi Celesti lanciano un attacco su Mondstadt per eliminare le ombre del Primordiale una volta per tutte.
Venti riesce a far evacuare i cittadini (non prima di avere una grande discussione con Diluc) ma nella battaglia Xiao e Andrius cadono, scatenando in lui una furia devastante.
Venti fa cadere Celestia dal cielo e uccide due Principi Celesti, mentre Ronova e Istaroth eliminano gli altri due.
La storia si chiude con i cittadini di Mondstadt dispersi tra le nazioni e Venti, carico di colpa, rabbia e desiderio di vendetta, nascosto insieme a sua madre e Ronova.
Chapter 2: Il peso della perdita
Notes:
Ed eccoci qui con il primo capitolo di questa storia! Spero che vi piaccia!
Alla fine sono riuscita ad aggiornare molto prima del previsto. Grazie per essere ancora qui. Buona lettura ❤️
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La vita a Liyue era caotica come sempre, così diversa dall’atmosfera di Mondstadt. Tutti correvano da una parte all’altra, impegnati in scambi, contratti, affari. Ogni cosa era vincolata da obiettivi precisi, scadenze serrate, clausole rigide.
Per quanto Jean avesse sempre apprezzato l’ordine, la chiarezza e l’efficienza… era pur sempre nata a Mondstadt. La città della libertà, del libero arbitrio, dell’arte, della poesia e del canto. Lì tutto era fluido, spontaneo. Quasi l’opposto di Liyue.
Jean lo sapeva: Liyue — come le altre nazioni — aveva accolto i rifugiati, offerto un nuovo alloggio, una possibilità per ricominciare. Eppure… non era casa. Non era la loro casa.
Era sbagliato pensarlo? Ingrato?
Jean sospirò, osservando l’ennesimo contratto davanti a sé. Probabilmente il centesimo della giornata. Le pulsava la testa.
Da quando Mondstadt era caduta, i suoi cittadini erano stati distribuiti tra le varie nazioni. Alcuni avevano scelto di stabilirsi altrove in modo permanente, cercando di rifarsi una vita. Altri, come lei, speravano ancora in una rinascita. In una ricostruzione.
Ma con quali fondi? Una cosa erano le riparazioni… un’altra era rifondare un’intera città da zero. Senza contare che il terreno su cui un tempo sorgeva Mondstadt oggi era invivibile: sterile, prosciugato, privo di vita. Non cresceva più nulla, i laghi si erano prosciugati, e l’acqua potabile era scomparsa.
Il cigolio di una porta interruppe i suoi pensieri. Jean alzò lo sguardo: era Ningguang, con un’altra pila di documenti fra le braccia.
«Scusami per il disturbo, Jean. Potresti revisionare anche questi? Ho una riunione importante e sono in ritardo. Ovviamente ti pagherò un extra!»
La donna le sorrise in fretta, poi scomparve come una folata di vento.
Jean annuì stancamente. Appena Ningguang uscì, poggiò la testa sulla scrivania con un sospiro affranto.
Era esausta.
Lavorava per Ningguang da quasi sei mesi, eppure non riusciva ancora ad abituarsi. E dire che anche il suo incarico a Mondstadt non era meno stressante… ma l’atmosfera lì era diversa.
Più viva. Più loro.
Per fortuna, almeno, aveva ancora Kaeya e Diluc accanto a sé. I due avevano deciso di collaborare con gli Adepti per mantenere la sicurezza a Liyue: da quando Xiao era morto, quel posto era rimasto vacante. Era anche un modo per mostrare gratitudine a Rex Lapis — il quale, come loro, sembrava attraversare un periodo difficile.
Jean chiuse gli occhi un momento, poi si raddrizzò e tornò al lavoro.
C’erano ancora troppi documenti da esaminare.
Ma, in fondo al cuore, un pensiero restava fisso e ostinato:
Voglio tornare a casa.
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Jean entrò nel suo appartamento provvisorio. Si tolse il cappotto e si lasciò cadere sulla poltrona, prosciugata da tutto: dal lavoro, dalla fatica, dalla vita.
Voglio tornare a casa.
Passò una buona mezz’ora a massaggiarsi le tempie, cercando sollievo da un’emicrania che non accennava a placarsi. Altre volte fissava semplicemente il vuoto, incapace persino di pensare.
Voglio tornare a casa.
Un bussare alla porta la riscosse dai suoi pensieri. Finalmente.
«Avanti.»
Kaeya e Diluc entrarono nella stanza. I loro volti erano provati quanto il suo, i corpi segnati da vecchie ferite e nuove bende. Jean sollevò un sopracciglio, preoccupata.
Capiva la gratitudine che li spingeva a offrire il proprio aiuto, ma a volte si chiedeva se non lo facessero solo per punirsi. Per dare un senso al dolore. Per sentirlo fisicamente, almeno, quando dentro era troppo.
«Pronta?» chiese Diluc.
Jean annuì distrattamente e si rimise il cappotto.
Aveva iniziato a perdere la speranza. Eppure continuava. Doveva capire. Doveva raccogliere ogni frammento, ogni indizio che potesse rivelare cosa fosse accaduto davvero quel giorno a Mondstadt.
Qualunque traccia che potesse indicare che Venti fosse ancora là fuori... vivo.
Qualsiasi cosa fosse rimasta intatta. Qualsiasi pezzettino della loro casa. Loro la cercavano. Anche solo una scheggia. Un residuo. Un ricordo.
Jean si sentiva sempre più persa. Come se la sua identità si stesse sgretolando con tutto ciò che era stata.
Voglio tornare a casa.
Sapeva quanto fosse pericoloso. Quella zona era contaminata da un’energia strana, letale. Non era semplice corruzione. Era qualcosa di peggio.
Come se forze antiche e potenti si fossero scontrate, lasciando il loro marchio. Una cicatrice ancora pulsante. L’energia permeava il territorio, lo infestava.
E poi c’era Celestia. Ancora lì, abbandona a terra. La loro terra.
Nessuno vi era mai entrato. Nemmeno gli studiosi di Sumeru avevano osato. Alcuni per timore di commettere un peccato irreparabile: dopotutto, era considerato un luogo sacro. Il luogo sacro.
Ma il vero motivo era un altro: non era possibile entrare.
L’energia corrosiva impediva ogni accesso. Chi si avvicinava troppo non sopravviveva.
Jean, Kaeya e Diluc i pochi ad avere il coraggio -- o la disperazione -- nello spingersi un po' più in là. Ma anche loro, dopo un certo punto, iniziavano a sentire i primi sintomi. Dolore, nausea, debolezza.
Erano costretti a ritirarsi.
Ma continuavano a provarci. Sempre. Perché finché quella casa non tornava in piedi… loro non avevano un posto dove esistere davvero.
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«Continua a essere un fiasco totale. Non importa quanto ci proviamo, quanto ci impegniamo. Non scopriamo mai nulla.»
La voce di Diluc era fiacca, il corpo teso per la frustrazione e il dolore che lo divorava dentro e fuori.
«Dobbiamo avere pazienza…» borbottò Jean, ma le sue parole erano leggere, vuote. I suoi occhi non avevano più credibilità, solo una stanchezza infinita.
Stringeva tra le dita un coccio trovato poco prima. Un frammento di piatto. Lo avvicinò al petto, come se potesse restituirle un po’ di calore.
Lo riconosceva dal ricamo: era di Mondstadt.
Era strano quello che facevano?
Raccogliere pezzi rotti, schegge, rifiuti… pur di restare legati a ciò che una volta era casa?
«Dobbiamo continuare.» La voce di Kaeya si alzò nel silenzio, bassa ma determinata. «È vivo. Me lo sento.»
Diluc scosse appena la testa. «È passato quasi un anno… Se Venti fosse ancora in vita, sarebbe già venuto da noi. Non l’ha fatto.»
La sua voce era spoglia di emozione, ma i suoi occhi si velarono. Lucidi, tradivano il dolore che cercava di soffocare.
Jean abbassò lo sguardo. Aveva pianto tanto per Venti. E continuava a farlo. Ogni giorno.
«Forse non si è presentato perché non può.» ribatté Kaeya, insistente. «Forse… Celestia l’ha preso. Forse è prigioniero.»
«O forse è morto.»
Il tono di Diluc fu tagliente, glaciale. Ma né Jean né Kaeya ci credettero fino in fondo.
Era una bugia. Una di quelle che si raccontano per non cadere a pezzi.
Un’armatura fatta di cinismo per coprire un cuore a brandelli.
Le ultime parole che Diluc aveva rivolto a Venti erano state fredde, piene di accuse, rabbia trattenuta troppo a lungo.
Jean lo conosceva da sempre, sapeva leggere le sue notti insonni e i silenzi più lunghi del dovuto. Quel senso di colpa lo stava consumando piano, come brace sotto la cenere.
E anche se non ne parlava mai, entrambi – Jean e Kaeya – sapevano che ciò che lo spingeva a tornare ogni volta tra le rovine non era solo la speranza, che fingeva di non avere… ma il bisogno disperato di perdono.
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Aether non era più partito. Aveva smesso di viaggiare per le nazioni, ma non per questo aveva smesso di creare legami.
Ora lo faceva per qualcun altro. Principalmente per Zhongli.
Gli portava da mangiare, lo incitava a uscire, e a volte — quando riusciva a coglierlo in uno spiraglio d’umore — lo convinceva anche a fare una passeggiata.
Aether sperava che, così facendo, sarebbe riuscito a restituirgli almeno una scintilla. Uno stimolo che potesse ricordargli cosa significasse vivere. Perché Zhongli… aveva perso tutto. Le due persone a cui era più legato, in un solo, maledetto giorno.
E tu non sei riuscito a fare nulla.
Sei arrivato troppo tardi. Sempre troppo tardi.
Così Aether aveva deciso. Avrebbe fatto la sua parte. Si sarebbe preso cura di lui.
E di Paimon.
Stava meglio, certo, ma chiunque la conoscesse davvero avrebbe notato che qualcosa si era spento in lei.
La sua vivacità, il suo eterno appetito… erano diventati un’eco lontana.
Eppure era sempre lei a preoccuparsi per lui, a spronarlo, a dirgli di ammettere che non stava bene.
Ma lei? Lei era stata la prima a smettere di toccare cibo, per una settimana intera, dopo la caduta di Mondstadt.
Aether stava bene.
Ma quelli intorno a lui no.
E quindi doveva occuparsene.
Doveva. Così, forse, avrebbe potuto rimediare a quell’inutilità che ancora gli stringeva lo stomaco ogni notte.
Si divertiva persino a fare le commissioni di Zhongli, anche quando l’uomo insisteva a dire che non ce n’era bisogno.
Aether sapeva che non era vero. Zhongli stava soffrendo. E lui… lui doveva esserci.
Forse così avrebbe potuto rimediare.
Forse, tenendo la mente impegnata, il senso di colpa sarebbe svanito.
Anche solo per un po’.
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Zhongli passava le giornate in casa. Quando non era lì, si chiudeva nel suo ufficio a lavorare, come se l’atto stesso di compilare documenti o leggere testi antichi potesse tenerlo ancorato a qualcosa.
Nei primi mesi, però, non aveva avuto nemmeno la forza per quello. Il dolore lo aveva travolto, annientato.
Hu Tao non aveva replicato. Come avrebbe potuto?
Era il loro Arconte. E aveva appena perso due delle persone a lui più care. Anche lei era in lutto.
Hu Tao scherza spesso sulla morte — è il suo modo di sopravvivere, di convivere con un lavoro che la porta a essere circondata dalla fine, giorno dopo giorno.
Ma questa volta era diverso. Questa volta il lutto aveva preso una piega personale.
Era legata a Xiao. Molto legata. Amica sincera, presente, costante.
E da semplice mortale, si era preparata all’idea che sarebbe stato lui a vederla morire, non il contrario.
E poi c’era Venti.
Negli ultimi mesi lo aveva conosciuto meglio, grazie proprio a Xiao. Quei due erano diventati inseparabili. E anche lei, inevitabilmente, si era affezionata.
Aveva capito subito che Venti era un’anima gentile, ma piena di ferite invisibili. Proprio come Xiao.
Non meritavano una fine così.
Meritavano pace.
Come Zhongli.
Ma l’uomo che una volta incarnava la solidità stessa, ora sembrava essersi frantumato. Si rifugiava nel lavoro, nei silenzi. E Hu Tao lo trovava spesso, a ogni ora del giorno e della notte, nel suo ufficio, piegato dalla stanchezza che non era solo fisica.
Era così da un mese.
L’unico a riuscire — in qualche modo — a smuoverlo, era Aether.
Gli portava da mangiare. Piccoli regali trovati in giro per Liyue. Lo invitava a uscire, e a volte riusciva davvero a trascinarlo fuori, anche solo per una breve passeggiata.
Zhongli, a dire il vero, sembrava infastidito da lui.
Aether era diventato quasi ossessivo, appiccicoso come una calamita che si incolla al vecchio drago e non vuole lasciarlo andare.
Hu Tao non capiva del tutto cosa gli passasse per la testa. Ma lo vedeva.
Nei suoi occhi. Nelle sue pause. Nel modo in cui restava in silenzio più del solito.
Qualcosa in Aether non andava. E lei se ne preoccupava.
Quanto a Zhongli…
Non reagiva quasi mai.
Sembrava un vecchio uomo rimasto solo, troppo appesantito dai ricordi per potersi ancora trasformare nel millenario dio che un tempo faceva tremare le divinità.
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Istaroth non sapeva bene cosa fare.
Non lo avrebbe mai ammesso, nemmeno a sé stessa, ma la verità era questa.
Lei era brava a stare nell’ombra. A tessere le trame del tempo, guidare gli eventi come un burattinaio invisibile, insinuando decisioni nei cuori degli uomini e nelle menti degli dei.
Muoveva i fili, piegava le epoche.
Era un vento silenzioso, un sussurro nel corso della Storia.
Ma ora tutto era cambiato.
Ora, non era più l’architetto.
Era un pezzo sulla scacchiera.
Coinvolta. Ferita. Vulnerabile.
Nemmeno loro Venti e Ronova, erano in buone condizioni.
Nessuno lo era.
Stavano ancora recuperando, lentamente, da una battaglia che aveva prosciugato tutto: potere, volontà, perfino identità.
E neanche il tempo, sotto il dominio di Istaroth, sembrava più abbastanza.
Ma non erano soli in questo stato.
Anche i Principi Celesti avevano pagato il prezzo.
Ferite profonde, crepe nel loro impero dorato.
Celestia non era uscita illesa dalla guerra.
La vittoria ora non era più una questione di strategia.
Era una corsa.
Un'attesa logorante.
Chi si sarebbe rialzato per primo?
Chi avrebbe recuperato per primo la propria forza?
Da questo dipendeva tutto.
Il destino del mondo si decideva nel silenzio.
Nel recupero. Nella resistenza.
E Istaroth, per la prima volta, non poteva prevedere l'esito.
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Ronova era stanca. No, a dirla tutta, "stanca" era una parola troppo gentile.
Era logorata, sopraffatta, come se portasse il peso di una casa crollata sulle spalle e fosse costretta a fingere che fosse solo una coperta un po' pesante.
Sua sorella non se la stava cavando affatto bene, anche se si ostinava a far credere il contrario.
E suo nipote… beh, suo nipote era lì, vivo, ma allo stesso tempo assente. Un fantasma che respirava. Una presenza che sembrava già appartenere all’assenza.
Ronova, nel frattempo, cercava di mantenere insieme i pezzi di qualcosa che sembrava ormai irrimediabilmente rotto.
Istaroth evitava Venti come se lui fosse fuoco e lei carta. E forse era proprio così. Ogni volta che i loro sguardi si incrociavano – raramente, per fortuna – bastava un attimo per sentire l’odio trattenuto di lui, la paura nascosta di lei.
Uno sguardo. Freddo. Paralizzante.
Istaroth non era mai stata una madre. Nemmeno per sbaglio.
Non che in quella famiglia ci fossero stati grandi esempi di genitorialità, certo, ma lei nemmeno ci aveva provato.
Si era tirata indietro. Troppo spaventata da quello che suo figlio avrebbe potuto dirle.
Troppo spezzata per reggere le sue parole.
O peggio ancora, il suo silenzio.
Così fu Ronova ad assumersi il ruolo che nessuno voleva.
Zia per sangue, madre per necessità.
All’inizio, Venti non volle saperne. Le chiudeva la porta in faccia, letteralmente.
Ma lei non se ne andava.
Entrava comunque, ignorando quel silenzio che avrebbe ammutolito chiunque altro.
Gli portava da mangiare, lo aggiornava su ciò che accadeva fuori dalla sua stanza, gli raccontava storie di tempi antichi, di epoche dimenticate. Diceva che voleva recuperare quel legame tra zia e nipote che non avevano mai avuto il tempo – o il permesso – di costruire.
In fondo, Ronova aveva sempre desiderato una famiglia unita.
Ma sembrava che si riunissero solo davanti alle rovine. Nelle guerre, nei funerali, nelle catastrofi. Mai durante la quiete.
Eppure, in un modo o nell’altro, finivano sempre per ritrovarsi.
Prima della guerra, Venti lo aveva visto appena.
Dopo una lite furiosa con la famiglia, Istaroth si era allontanata da tutto e da tutti.
Non voleva che nessuno si avvicinasse a suo figlio.
Una volta, arrivò persino ad attaccare Ronova per questo.
Le due si erano in parte chiarite, secoli dopo, ma il rapporto non era mai tornato com’era un tempo.
Ammesso che fosse mai stato buono.
E Venti…
Venti si rifugiava nel silenzio.
Ma a poco a poco, iniziò a tollerare la presenza di lei. A lasciarla restare.
Perfino ad ascoltarla.
Da tre settimane lasciava addirittura la porta socchiusa.
Era il suo modo per dire: “Puoi entrare”.
Non parlava, non ancora. Ma se prima non la degnava nemmeno di uno sguardo, ora i suoi occhi la seguivano. La osservavano mentre lei parlava da sola.
E per Ronova, quello era già un miracolo.
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Come ogni giorno, Ronova varcò la soglia della stanza in punta di piedi.
Silenziosa, attenta. La luce era soffusa, l’aria immobile.
Un vuoto abitato da un solo respiro.
«Sto entrando!» annunciò con una voce più allegra di quanto si sentisse, cercando di non mostrare la stanchezza.
Venti era lì, seduto sul letto, lo sguardo perso fuori dalla finestra. Ma al suono della sua voce si voltò lentamente, incontrando i suoi occhi.
Ronova gli rivolse un sorriso.
«Oggi, ragazzo mio, ho una sorpresa per te!» disse con tono cantilenante, portando le mani dietro la schiena come se custodisse un segreto.
Venti la osservò con una punta di curiosità sincera, quasi infantile.
Una scintilla. Piccola, ma viva.
Con una teatralità che non le apparteneva – e che le faceva un po’ vergogna – tirò fuori un vecchio flauto dorato. La superficie era lievemente ossidata, ma il metallo rifletteva ancora la luce con una dolcezza antica.
«Tadaaa!» esclamò, come se avesse appena compiuto un trucco di magia.
Gli occhi di Venti si accesero.
Era quasi impercettibile, ma Ronova lo vide.
Una vibrazione nell’aria. Un battito, una fessura nel gelo.
La musica.
La sua musica.
Prima che tutto andasse in pezzi, Venti viveva per la melodia. Respirava attraverso le note, rideva tra gli accordi.
Se proprio non voleva – o non poteva – tornare a suonare, avrebbe suonato lei per lui.
«Okay… lo ammetto, sono una frana,» disse sollevando le mani in segno di resa. «Sicuramente non sono ai tuoi livelli. Quindi, per favore, non giudicarmi troppo!»
Gli fece l’occhiolino.
Venti abbozzò un sorriso.
Un vero sorriso, piccolo, accennato. Ma lo era.
E quello, per Ronova, era già una vittoria.
Portò il flauto alle labbra e cominciò a suonare.
Le note erano storte, tremolanti, a volte persino stonate.
Ma l’impegno c’era. L’amore c’era.
E Venti… rise.
Una risata silenziosa, che gli increspò le labbra e gli fece brillare gli occhi.
Era un suono che lei non sentiva da troppo tempo.
«Ehi! Se ti fa tanto ridere, perché non provi tu?» lo sfidò lei, tra il gioco e la speranza.
Venti si ritirò un poco, come un fiore al primo freddo.
Ronova lo guardò con dolcezza, abbassando il tono.
«Va bene, okay. Non sei costretto. Ma lo lascio qui, vicino a te. Nel caso… nel caso un giorno volessi provarci. Anche solo per un attimo.»
Posò il flauto con cura sul bordo del letto, poi gli fece un piccolo cenno d’intesa.
Venti rispose con un lieve movimento del capo.
Un cenno. Silenzioso. Ma carico di significato.
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E così, come accade sempre più spesso, Ronova decide di colmare il silenzio con storie. Non è mai stata brava a esserci quando contava davvero, ma forse, in qualche modo, può farlo ora.
Con parole. Con ricordi. Con vita.
Dopotutto, Venti ha sempre amato le storie.
Un tempo… le scriveva.
Si siede accanto a lui sul letto, senza chiedere permesso, come se sapesse di appartenere a quel momento. E sorride.
«Sai, una volta ho provato a cucinare per impressionare un’altra divinità…» comincia, trattenendo una risata. «Sì, lo so, sembra già l’inizio di una tragedia.»
Venti alza un sopracciglio, incuriosito. Ronova prosegue.
«Avevo trovato questa ricetta antica di una torta al miele. Dicevano che le divinità ne andassero pazze.
Il risultato? Un’esplosione. Letterale. Ho dimenticato il miele nel pentolino. La cucina si è trasformata in una palude zuccherosa.
E lui… è arrivato giusto in tempo per vedermi cercare di staccare un cucchiaio fuso dalla parete.»
Fa una pausa, poi conclude con leggerezza:
«Non mi ha mai più parlato. E francamente? Gli do ragione.»
Ride da sola, mentre Venti la osserva con un’espressione a metà tra lo stupore e l’incredulità.
Forse, per un istante, si chiede se lei sia completamente folle. Ma non smette di ascoltare.
E ancora...
«Una volta ho pattinato su un lago ghiacciato.
Era talmente perfetto da sembrare irreale: trasparente, liscio come vetro, incorniciato da alberi innevati.
Mi sono detta: “Ronova, sei nata per questo”.»
Si ferma, la bocca si piega in un mezzo sorriso colpevole.
«Tre secondi.
Mi sono bastati tre secondi per volare in acqua.
Sai com’è cadere in un lago gelato d’inverno?
È come se l’universo ti desse uno schiaffo dritto all’orgoglio.»
Fa un gesto vago con la mano.
«E la parte peggiore?
Una bambina. Piccola. Mi ha tirata fuori, tutta seria, e mi ha chiesto se volevo una cioccolata calda.
Io ho detto sì. Tanto la dignità l'avevo già persa.»
Le spalle di Venti fremono appena. Abbassa lo sguardo per non ridere, ma è troppo tardi.
Ronova finge di offendersi.
«La cioccolata era pure tiepida!»
Ma ride anche lei.
E ancora...
«Lo sai che una volta ho provato a fare la barda?» chiede, un po’ troppo fiera. «Proprio come te!
Avevo una lira, un mantella, e un nome d’arte: Flame.»
Si batte una mano sul petto con teatralità.
«Il mio primo pubblico? Un branco di cinghiali.
Sai cosa fanno i cinghiali quando non apprezzano la musica?
Caricano.»
Si tocca la tempia, come se sentisse ancora il dolore.
«Alla fine mi sono rifugiata su un albero, con la lira mezza distrutta…
Beh, diciamo che Flame era diventata più Carboncino.»
Venti scuote la testa piano. Un gesto muto, ma affettuoso.
E soprattutto: continua ad ascoltarla.
Non smette mai.
E ancora...
«So che non ti va di parlare di tua madre. E va bene. Ma…
Posso dirti una cosa, solo una?»
Venti non risponde. Ma non serve.
«Una notte, tanti secoli fa… l’ho vista piangere.
Non se n’era accorta, ma la stavo seguendo.
Si era seduta su una scogliera, da sola, e guardava le stelle.
Non disse nulla. Le lacrime le rigavano il viso.»
Un silenzio breve. Pesato.
«Quel giorno ho capito che non era fatta solo di vento e di tempo.
Era fatta anche lei di carne, di cuore… di crepe.
Come te.
Come me.»
Venti stringe le ginocchia al petto. Non piange.
Ma il suo respiro si fa lento, più profondo.
Ronova non dice altro. Gli sta accanto.
E ancora...
«Una volta ho rischiato la vita per un’anatra.»
Il tono leggero, un sorriso abbozzato.
«I mortali giuravano che fosse sacra. Portatrice di fortuna e benedizioni.
Io non ci credevo… finché non l’ho vista intrappolata in una rete.
Così l’ho liberata.
E lei? Mi ha beccata. Poi mi ha fatto la cacca sul piede.»
Pausa.
«Sacra o no, io non l’ho mai perdonata.»
Un battito di ciglia.
«Ma quella sera ho trovato un fiore. Un fiore rarissimo, che cresce solo una volta ogni secolo.
Forse è stata una coincidenza.
Forse… no.»
Venti sorride davvero, stavolta. Solo un accenno. Ma c’è.
Ronova lo nota, ma non lo sottolinea.
Gli lascia il lusso di esserci.
Di sentirsi, anche solo per un attimo, meno solo.
Chapter 3: Le Origini
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La notte avvolgeva Mondstadt in un abbraccio di velluto, punteggiata di stelle come ferite luminose nel cielo. L’aria era immobile, il mondo sembrava trattenere il respiro. Un silenzio profondo, quasi sacro. Eppure, tutto era in pace.
Venti si muoveva tra le ombre, tra i rami mossi appena dal vento e il canto sommesso della natura. Ogni brezza portava storie da terre lontane — frammenti di voci, risate, amori spezzati. Li ascoltava come si ascolta una vecchia canzone. Erano felici. Anche lui lo era… forse.
Poi, un’esplosione in lontananza. Colori squarciarono il cielo, uno dopo l’altro, in una danza sfavillante. Windblume era arrivato. La città era viva più che mai, e lui la guardava da lontano.
Osservava i suoi figli gioire. I cittadini di Mondstadt , i cuori che proteggeva. Eppure, restava nascosto. Partecipare a una festa creata anche per onorarlo gli sembrava… troppo. Per quanto si mostrasse allegro, Venti era un’anima quieta, introversa. Un bardo che raccontava le gioie degli altri per non dover raccontare le proprie assenze.
"Non vai a gioire con loro?"
La voce arrivò morbida, come una carezza. Venti sentì un nodo stringergli la gola, improvviso, inspiegabile. Un vuoto doloroso, come un richiamo lontano.
Si voltò subito, con un sorriso. Quello che sapeva indossare meglio.
"Xiao! Sei venuto a trovarmi?"
Lo abbracciò con slancio, e il calore del suo corpo lo trafisse. Caldo. Reale. Troppo. Avrebbe voluto restare lì per sempre.
"Mi manchi," sussurrò Xiao, con un sorriso appena accennato.
Venti rise. Ma dentro qualcosa si incrinò.
"Ma che dici? Ci siamo visti ieri!"
Eppure Xiao non rispose. Si limitò a guardarlo con quella malinconia negli occhi che Venti odiava. Perché gli faceva paura.
"Vogliamo andare insieme a vedere i fuochi?" propose Xiao, dolcemente.
Venti rise ancora, più forte. Quasi teatrale.
"Tu… Xiao? In mezzo alla folla? Sei sicuro di stare bene?"
Xiao annuì e senza dire altro lo afferrò per mano. Un attimo dopo erano entrambi su un tetto alto, sopra Mondstadt , con il vento nei capelli e la città pulsante sotto di loro.
I fuochi esplodevano in cielo, grandi come sogni, fragorosi come cuori infranti. I bambini ridevano, alcuni piangevano per il rumore.
"Non è meraviglioso?" disse Venti, con gli occhi pieni di luce.
Xiao annuì. I loro sguardi si incrociarono. E lì, tra il fragore e i colori, si scambiarono un bacio. Dolce. Lungo. Sospeso.
Venti chiuse gli occhi.
Ma il rumore... cambiò. Si fece più forte. Troppo forte.
I fuochi non sembravano più festosi, ma minacciosi.
Ogni scoppio era una lama che gli
perforava
i timpani.
Si staccò da Xiao, portandosi le mani alle orecchie.
"Fa male…" mormorò. Ma la sua voce si perse nel boato crescente.
Si voltò.
"Xiao?"
Nessuna risposta. Solo rumore. Rumore ovunque.
Aprì la bocca, ma il mondo non ascoltava più.
Venti si allontanò, spaesato, stordito. Le mani ancora serrate sulle orecchie come se potessero proteggerlo, lo sguardo fisso a terra, cercando un punto d’appoggio nella vertigine che sentiva salire da dentro.
Poi sollevò lentamente gli occhi.
Xiao era lì.
Ma non era più lui.
Il suo corpo era deformato, contorto in un modo innaturale. Una lunga lama gli spuntava dallo stomaco, conficcata in profondità. Il sangue, denso e scuro, colava dalla bocca, gocciolando sui mattoni del tetto. Gli occhi… spenti. Vuoti.
Venti sentì il cuore fermarsi. Provò a gridare.
Aprì la bocca in un urlo disperato, straziante.
Ma nulla uscì.
Nessun suono.
Solo il fragore assordante dei fuochi — che ora suonavano come esplosioni, come urla, come pianti lontani.
Xiao cadde in ginocchio. E poi… svanì, in un’ombra che si dissolse nel vento.
Venti barcollò. Tutto intorno a lui iniziò a distorcersi. I tetti di
Mondstadt
si scioglievano come cera, le luci diventavano rosso sangue.
Le fiamme inghiottivano la città.
Tutto bruciava. Tutto gridava.
Mondstadt
era in cenere.
E lui non poteva fare niente.
Poi, d’un tratto—
Buio
.
---
Venti si svegliò di colpo, urlando. Il cuore impazzito nel petto.
Il sudore gli bagnava la fronte, la maglia appiccicata al corpo tremante. Il respiro corto, spezzato.
Si guardò intorno, ansimante. Era nella sua stanza. Al sicuro.
Ma le urla… il sangue…
Il volto di Xiao.
Si portò una mano al petto, lì dove aveva sentito quel dolore.
Era solo un sogno.
Ma allora…
Perché il dolore era ancora lì?
Venti, ancora tremante e a corto di fiato, decise di concedersi una tregua. Si alzò lentamente dal letto e uscì dalla sua stanza con l’intento di raggiungere la cucina e prendere un po’ d’acqua. Non era sicuro di trovarla, dopotutto conosceva a malapena quella casa: vi usciva raramente, e il posto era così vasto da sembrare un labirinto.
Aprì la porta della stanza in punta di piedi, cercando di non fare rumore. Il cigolio improvviso del legno lo fece sussultare. Sbuffò, non era dell’umore giusto per incontrare nessuno, tanto meno Istaroth.
Proseguì in silenzio lungo il corridoio finché non raggiunse finalmente la cucina. Afferrò un bicchiere, lo riempì d’acqua e lo portò alle labbra. Non aveva realmente bisogno di bere, ma quel gesto umano e banale lo aiutava a calmarsi. O forse era solo un’abitudine che aveva acquisito col tempo, senza più interrogarsi sul perché.
Poi, dei passi alle sue spalle.
Oh no.
Ronova entrò con una tazza di tè in mano e i capelli spettinati. Il volto segnato, stanco. Sembrava distrutta quanto lui.
Egoista. Tutto questo è colpa mia.
«Oh, Venti… sei qui anche tu.» La donna distolse lo sguardo, voltandosi di lato per asciugarsi in fretta le lacrime. Non voleva farsi vedere piangere.
Venti la osservò con tenerezza mista a senso di colpa. In silenzio, le porse la bottiglia.
«Grazie, ragazzo.» disse Ronova, accettandola con un lieve cenno del capo. Poi aggiunse con un sorriso triste: «Notte difficile, eh?»
Venti annuì, abbassando lo sguardo.
Ronova sospirò. «Siamo in due… anche se, a dire il vero, dovremmo entrambi provare a dormire.»
Ma Venti non rispose. Il pensiero della notte, della solitudine, di quel sogno orribile… lo rendeva ancora più inquieto.
«Che ne dici se ti racconto una storia?» propose allora lei.
Voleva replicare, dirle che non era più un bambino, che non aveva bisogno di favolette. Ma ogni volta che cercava di aprire bocca, temeva di sentire la voce del suo amico morto mescolarsi al ricordo ancora troppo fresco di chi non c’era più. Così restò zitto. Non voleva pensare. Non ora.
Alla fine annuì, lasciandosi accompagnare di nuovo in camera. Si sedette sul letto, in attesa.
Le storie di Ronova, dopotutto, avevano il potere di lenire il vuoto. Almeno un po’.
La donna si sedette ai piedi del letto, chiuse gli occhi un istante, poi cominciò.
Ronova rimase in silenzio per qualche istante, quasi come se stesse cercando le parole giuste da afferrare in mezzo al caos che si agitava dentro di lei. Poi sollevò lo sguardo, i suoi occhi ancora arrossati, ma lucidi di una nuova determinazione.
«Oggi…» iniziò, la voce bassa ma ferma, «oggi voglio raccontarti una storia. Non una favola per bambini, né un mito ormai dimenticato. È la nostra storia. La storia della nostra famiglia… e di questo dominio che chiamiamo casa.»
Venti sollevò lo sguardo, un’espressione di dubbio velato gli attraversò il volto, ma non disse nulla. Ronova colse quel silenzio come un assenso e proseguì, la voce quasi un sussurro che scivolava nell’aria densa della stanza.
«So che potresti non voler sentire queste parole, so che tutto ciò che riguarda questo mondo ti pesa. E a volte, anche io mi chiedo se sia giusto continuare a portare questo fardello. Ma, Venti… non possiamo fuggire da ciò che siamo. Da dove veniamo.»
Fece una pausa, osservando le sue mani intrecciate in grembo, come se lì potesse trovare la forza di proseguire. Poi sollevò lo sguardo di nuovo, incrociando gli occhi del ragazzo.
«Tutti noi – io, Istaroth, gli altri… e tu – siamo frammenti di un’unica divinità. Un’entità antica e potente, un’essenza che un tempo era indivisibile. Ma il tempo, la sofferenza, la volontà degli dei o forse il capriccio del destino… hanno fatto sì che ci dividessimo. Ognuno di noi è un riflesso, un pezzo staccato da quell’intero originario.»
Venti trattenne il fiato, sentendo il cuore battere più forte nel petto. Era difficile accettare, difficile perfino immaginare. Lui, un frammento di qualcosa di così immenso?
«Siamo una cosa sola, Venti. Sempre lo siamo stati, anche quando ci siamo sentiti soli, spezzati, abbandonati. Le nostre vite, le nostre memorie, sono fili dello stesso tessuto. E tu… tu hai il diritto di conoscere le tue origini. Di sapere chi sei davvero. Non per obbligo, ma perché ogni verità, anche quella più dolorosa, ha il potere di liberare.»
Ronova allungò lentamente una mano, quasi timorosa, e gliela posò sul ginocchio in un gesto gentile.
«Non voglio costringerti. Solo… lasciami raccontare. E se vorrai, potrai scegliere tu cosa farne di questa storia.»
La stanza restò in silenzio per un lungo momento, interrotto solo dal lieve fruscio del vento dietro i vetri.
Ronova chiuse per un momento gli occhi, quasi volesse radunare ogni frammento della sua memoria prima di lasciarlo fluire. Poi, con un tono grave e dolce allo stesso tempo, cominciò a raccontare.
«Molto tempo fa… esistevano delle divinità. Non come quelle che oggi vengono celebrate con templi o statue. No. Erano una specie a parte, una razza unica e primordiale. La nostra razza.»
La sua voce si abbassò, divenne un sussurro carico di rispetto e rimpianto.
«Erano forze della natura, Venti. Pura energia dell’universo incarnata. Non erano nate come gli esseri viventi che conosciamo oggi: erano nate dall’universo stesso. E di quell’energia si nutrivano, respiravano l’infinito. Ogni loro passo poteva far tremare le fondamenta del mondo. Ogni loro pensiero… poteva cambiare il corso della realtà.»
Fece una pausa, guardando il vuoto, come se vedesse davanti a sé quelle antiche creature, immortali e incomprensibili.
«Ma un potere così immenso… richiede qualcosa di ancora più raro della forza: richiede saggezza. Richiede il coraggio di non usarlo. E la capacità di comprendere i limiti del mondo in cui ci si muove.»
Ronova inspirò lentamente, come a pesare ogni parola.
«Venivano chiamati “i Primordiali”, perché in loro scorreva la scintilla stessa che aveva dato origine all’universo, alla materia, alla vita. Erano i creatori… ma anche, tragicamente, i distruttori. Più si nutrivano, più diventavano instabili. E alla fine… fu il loro stesso mondo a pagarne il prezzo.»
La sua voce si fece più cupa.
«Quel mondo, il loro mondo natio, venne ridotto a un deserto morente. Brandelli di realtà in frantumi, trascinati nel vuoto. Così, invece di fermarsi, cercarono altri mondi da conquistare. Altri universi da modellare a loro immagine. Ma nel farlo… la loro unità si spezzò. La brama di dominio li avvelenò, li spinse l’uno contro l’altro.»
Un’ombra attraversò lo sguardo di Ronova.
«E così, iniziò la guerra. Una guerra tra dèi. Tra fratelli e sorelle. Tra esseri fatti della stessa luce. Una guerra spietata, violenta… definitiva. Pochissimi ne uscirono vivi. I più forti dell’universo furono così stolti da distruggersi con le proprie mani.»
Un silenzio pesante seguì quelle parole.
«Nostro padre… fu uno dei pochi sopravvissuti. Forse l’unico, anche se nessuno può dirlo con certezza. Ferito, esausto, solo… vagò finché non trovò un luogo che chiamò casa: Teyvat.»
Venti trattenne il fiato.
«E come la sua stessa natura gli imponeva… sottomise ciò che trovò. I draghi che dominavano il mondo all’epoca si ribellarono, certo… ma vennero annientati. Uno dopo l’altro. Nostro padre prese il controllo. Ma non era più quello di un tempo. Era un re spezzato.»
Ronova si strinse le braccia, come a scaldarsi da un gelo antico.
«Per governare, si divise. Letteralmente. Creò quattro ombre di sé stesso. Quattro riflessi della sua potenza, ognuno incaricato di un ruolo diverso. Io ero una di quelle ombre. E anche tua madre lo era.»
Si fermò, per lasciare a Venti il tempo di assimilare.
«Passarono gli anni. Teyvat prosperava sotto il nostro dominio. Ma non durò. Un giorno, un altro dio arrivò. Cercava potere, come tutti noi un tempo. Pensavamo fosse giovane, impulsivo. Uno sciocco. Ma ci sbagliavamo.»
Il suo sguardo si indurì.
«“Il Secondo che Venne”… così fu chiamato. Ma il suo vero nome era Ermes. Non era nato a Teyvat, ma era uno dei superstiti di un mondo distrutto molto tempo prima dai nostri antenati. Era venuto a cercare vendetta… e giustizia.»
La sua voce si spezzò per un attimo.
«Portava con sé altri come lui. Iniziò una nuova guerra. Breve, ma brutale. Nostro padre… perse. Morì sotto la furia di Ermes. E noi ombre ci ritirammo, nascondendoci.»
Abbassò lo sguardo.
«Tua madre, però, non si arrese. Sapeva che saresti nato. Lo aveva visto. Vedeva il tuo cammino, il tuo destino. Aveva compreso che tu… avresti potuto cambiare tutto. Così fece ciò che nessuno di noi avrebbe mai osato fare: si sottomise ai Principi Celesti. Fece un patto. Un sacrificio.»
Venti la fissava, immobile, senza parole.
«Fu così che la caccia contro di noi si fermò. Per un tempo. Tua madre divenne una loro servitrice, e tu… sei nato. Il resto, lo conosci. In parte.»
Poi, con tono più basso, aggiunse:
«Ma i Principi… scoprirono il suo inganno. Non so come, ma compresero che stava complottando contro di loro. Allora… la caccia riprese. Venne improvvisa, furiosa. Non avevamo tempo. Dovevamo metterti in salvo. Ma eravamo già circondati. Non c’era altra via che aprire un portale. Un altro mondo. Un’altra possibilità.»
Ronova si voltò verso Venti, con gli occhi colmi di dolore.
«Non siamo riusciti a proteggerti come avremmo voluto. Non a sufficienza. Ti abbiamo lasciato solo, e di questo… ti chiedo perdono, Venti.»
Un silenzio irreale avvolse la stanza. Solo l’eco silenziosa dell’energia dentro di lui sembrava pulsare ancora, un fremito antico che tradiva la presenza di quel sangue primordiale — la stessa scintilla che un tempo aveva forgiato le stelle e distrutto interi pianeti.
Fu in quel momento che Venti comprese davvero la verità: proveniva da una stirpe di distruttori, esseri primordiali che avevano annientato mondi interi, consumati dalla loro stessa natura.
Era inscritto nel suo sangue, in quella scintilla divina che bruciava dentro di lui. E forse era proprio per questo che tutto ciò che toccava, tutto ciò che amava, finiva irrimediabilmente per spezzarsi, per morire… come se il caos stesso camminasse al suo fianco.
Forse era nato per distruggere, non per salvare.
---
Jean era di nuovo chiusa nel suo ufficio, il volto pallido e segnato dalla stanchezza. Le maniche arrotolate, i documenti sparsi, il silenzio rotto solo dal ticchettio insistente della penna sulla carta. Esausta. Vuota.
Fu allora che un colpo leggero bussò alla porta.
«Sì?» rispose, la voce piatta, spenta.
Una voce familiare, profonda e carica di una vena ironica, rispose dall'altra parte:
«È così che si accoglie un vecchio amico?»
Jean trasalì. Per un istante pensò di star sognando. Si alzò di scatto, incredula.
«...Varka?»
La porta si aprì lentamente, rivelando la figura imponente del Gran Maestro.
«In carne e ossa» disse, con un sorriso aperto, le braccia spalancate.
Jean si avvicinò, esitante, ma poi si lasciò andare all’abbraccio, stringendolo come se volesse assicurarsi che fosse davvero lì.
«Sei venuto...» sussurrò, la voce incrinata.
«Come avrei potuto non farlo?» replicò lui, allontanandosi con delicatezza. «Anzi... mi dispiace non essere stato qui quando avevi più bisogno.»
Jean abbassò lo sguardo. Avrebbe voluto dirgli che andava tutto bene, che era felice di rivederlo. Ma la verità pesava troppo. La sua assenza aveva lasciato un vuoto incolmabile. Se n’era andato portando via con sé buona parte delle forze dei Cavalieri di Favonius. E lei era rimasta. Sola. A gestire il caos, la paura, le perdite… senza risposte.
«Sono tornato per parlarti. Per trovare una soluzione insieme. Mondstadt ha bisogno di noi.»
Jean rise, un suono amaro.
«Mondstadt non esiste più, Varka. Letteralmente. È stata... schiacciata. L’isola di Celestia è precipitata sopra di noi. Tutto è andato perduto.»
Varka sospirò, accigliandosi.
«Lo so. E so che dovremo capire anche cosa significhi, davvero, quel crollo... Ma Jean, davvero vuoi arrenderti così? Ti ho scelta come mia sostituta perché credevo nella tua forza. Nella tua tenacia.»
Jean si voltò verso la finestra, il cuore appesantito da parole che nessun discorso d'onore poteva cancellare.
«E dove la troviamo, adesso, quella forza? Dove troviamo i fondi per ricostruire un’intera città? Siamo già in debito con Liyue, per l’aiuto che ci hanno dato durante l’invasione dell’Abisso. Quello era ‘riparare’. Ora... dobbiamo rinascere dalle ceneri. Ricostruire tutto. Trovare e riportare a casa i cittadini dispersi. Registrarli. Dargli un tetto, un nome, un futuro. È... un’intera rinascita. E non so da dove si cominci.»
Silenzio. Solo il fruscio del vento oltre le finestre rotte. Poi, lentamente, Varka si fece più vicino.
«Allora cominciamo da qui. Da questo ufficio. Dalle nostre mani. Dalla nostra volontà. Mondstadt non è fatta di pietre, Jean. È fatta di persone come te.»
Jean rimase in silenzio per un lungo momento, lo sguardo perso nel vuoto. Poi, infine, sollevò gli occhi verso di lui.
«Cosa proponi?»
Varka sorrise con una calma strategica.
«Un accordo multinazionale. Noi offriamo ciò che ci resta: la nostra forza militare, le nostre conoscenze, la nostra esperienza tattica. In cambio, loro ci forniscono fondi, materiali, manodopera. Tutto ciò che serve per far risorgere Mondstadt.»
Jean lo osservò, scettica.
«E credi davvero che funzionerà? Le altre nazioni potrebbero vederla come un’opportunità per ottenere potere... e controllo. Potrebbero usarlo contro di noi.»
«È un rischio, sì. Ma per questo ho intenzione di escludere Snezhnaya dai negoziati. Le altre nazioni… sono più inclini alla diplomazia, almeno in questo momento. Offriremo qualcosa di concreto: rotte commerciali privilegiate, quando la città sarà ricostruita. Abbiamo ancora soldati fedeli, cavalieri esperti, studiosi. Possiamo offrire addestramento militare, protezione, consulenze strategiche. In breve, possiamo renderci indispensabili.»
Jean rifletté, il cuore diviso tra il desiderio di rinascita e la paura di svendere la propria patria.
Alla fine, un lento cenno del capo sancì la sua decisione.
«D’accordo. Ma anche se riuscissimo a ottenere l'appoggio... dove la ricostruiamo? Il vecchio sito è completamente distrutto. Inabitabile.»
Varka si fece serio, lo sguardo determinato.
«Ho pensato anche a questo. C’è una zona, al confine con Liyue. Ancora intatta, fertile, strategicamente favorevole. Se otterremo il consenso di Ningguang, potremmo costruire lì. Una nuova Mondstadt.»
Jean sospirò piano.
«E tutto dipenderà da cosa penseranno le altre nazioni…»
«E da quanto saremo disposti a credere, ancora, nel futuro di Mondstadt.»
---
Diluc si trovava poco fuori dalla caotica Liyue. Era uscito per prendere un po’ d’aria. Per ricordarsi di respirare.
Da quando era scoppiata quella guerra, il vento aveva smesso di soffiare. O forse, soffiava ancora, ma così piano da sembrare un sussurro.
Quel lieve tocco d’aria sul viso gli dava una speranza sottile: che forse lui fosse ancora vivo.
Ma non osava dirlo ad alta voce. Renderla reale significava rischiare di vederla frantumarsi. E la caduta, dopo la speranza, faceva sempre più male.
«Che ci fai qui fuori? Lo sai che a quest’ora iniziano a girare parecchi mostri.»
La voce di Kaeya alle sue spalle lo fece trasalire. Quell’uomo era sempre stato silenzioso, appariva come un’ombra. Nessun passo, nessun rumore. Solo la sua voce.
«Non posso uscire a prendere un po’ d’aria?» rispose Diluc, il tono secco.
Kaeya rise, ma era una risata amara.
«Per come ti comporti ultimamente, sembra quasi che tu abbia un desiderio di morte.»
«Non dire sciocchezze.»
«Allora perché, quando lo dici, non mi guardi mai negli occhi?»
Diluc si voltò di scatto e lo fissò dritto, una sfida muta. Ma gli occhi erano colmi di stanchezza.
Kaeya lo guardò, e il suo sorriso si fece più gentile.
«Sono preoccupato per te.»
«Non dovresti esserlo. Non è affar tuo. Torna a sorvegliare Liyue.»
Kaeya deglutì. Sentì gli occhi pungere.
«Abbiamo intenzione di fare così per tutta la vita? Io… lo so che mi odi, e—»
«Non ti odio.»
«Cosa?»
«Non ti ho mai odiato.»
Il silenzio calò d’improvviso. Denso, pesante.
«Allora perché ti comporti così?» chiese Kaeya, con voce rotta.
Diluc abbassò lo sguardo. Poi lentamente, si voltò di nuovo verso di lui. E stava piangendo.
«Luc…» sussurrò Kaeya.
Diluc si affrettò ad asciugarsi le lacrime, quasi infastidito da se stesso.
«Mi dispiace. Non avresti dovuto vedermi così.»
Kaeya gli si avvicinò piano. Poi lo abbracciò. Forte. Caldo. Deciso.
Diluc si irrigidì per un istante, ma poi… si lasciò andare. Lasciò cadere le difese. Le lacrime. Il peso.
Restarono così. Fermi. Due minuti buoni.
Poi, in un sussurro, Diluc parlò.
«Mi dispiace.»
«Per cosa?»
«Per come ti ho trattato. Non ti ho mai odiato, io… mi sentivo in colpa. Ero arrabbiato. Deluso. Ma non con te. Con me stesso.
Per ciò che ti ho fatto, per aver permesso che tutto accadesse.
Era più facile prendermela con te… piuttosto che affrontare ciò che avevo dentro.»
Kaeya non rispose subito. Una lacrima scese lungo la sua guancia.
«Dispiace anche a me. Per non averti detto la verità. Per averti tenuto lontano.
Mi sei mancato, Luc.
Mi è mancato mio fratello.»
Chapter 4: Speranza
Notes:
Ciao!
Scusatemi per l'attesa ma ho avuto una settimana piena e sono riuscita ad aggiornare solo ora.
Grazie per il vostro supporto! Spero che questo capitolo vi piaccia.Buona Lettura ❤️
Chapter Text
Venti era nel caos.
Caos puro, totale.
Sangue ovunque. Ovunque. A terra, sulle mani, sui vestiti. Sulle piume che non sembravano più sue.
Corpi. Corpi deformi, contorti come marionette spezzate. Alcuni ancora caldi, altri già rigidi.
Anche lui era ricoperto di sangue. Anche il suo corpo cominciava a deformarsi lentamente. Articolazioni che si piegavano al contrario. Pelle che bruciava.
Era buio, eppure riusciva a vedere.
All’orizzonte, tra le ombre, si stagliavano solo rovine e cadaveri.
Urla. Pianti. Lamenti. Ovattati ma costanti, come un coro dell’inferno.
La disperazione saturava l’aria, più densa del fumo, più tagliente del vetro.
Venti corse. Corse senza sapere dove, né perché.
Voleva solo andare lontano.
Lontano dal sangue, dalle urla, dai corpi. Dal dolore.
Corse finché le gambe non lo tradirono, piegandosi in modo innaturale. Un suono secco, poi la caduta.
Crollò a terra.
I cadaveri intorno a lui restavano fermi.
Ma lo guardavano. Occhi vitrei, privi di luce, puntati solo su di lui.
Solo su lui.
Era un incubo.
No, peggio. Era reale.
Venti cercò di strisciare via, usando le braccia, ma anche quelle iniziarono a spezzarsi.
Ustioni si aprivano ovunque sulla pelle, come se fosse stato bruciato dall’interno.
Ma non sentiva dolore.
Solo… il
vuoto
.
Si specchiò in una pozzanghera sporca. Acqua mista a sangue.
Quel volto. Quelli non erano i suoi occhi.
Erano vuoti, spenti.
Il sangue gli colava dalla bocca.
No.
Quel riflesso non era il suo.
Era
Himmel
.
O era lui?
Dove finiva Venti e dove iniziava Himmel?
Non lo sapeva più.
Non c’era più distinzione.
Solo confusione.
Un tonfo improvviso.
Un corpo gli crollò addosso.
Si voltò di scatto.
Era
Xiao
.
O meglio… il suo cadavere.
Occhi tristi. Morti.
Fissavano i suoi.
Venti provò a urlare.
Niente uscì. Solo silenzio. Un silenzio assordante.
Attorno a lui:
Morte.
Sangue.
Dolore.
Morte.
Sangue.
Dolore.
Un mantra ossessivo, che si ripeteva senza fine.
Un ciclo malato.
Un ciclo eterno
.
Sopra di lui, nel cielo nero, si aprì una fenditura.
Luce.
Fredda. Bianca. Spietata.
I Principi Celesti.
Colonne eteree, intoccabili, si stagliavano nella volta del cielo.
Ridevano.
Una risata contorta, disumana. Felici nella distruzione.
Felici di vederlo a pezzi.
Dalle loro mani, la rovina.
Distruggevano tutto ciò che Venti aveva mai amato.
Distruggevano lui.
Anima, cuore, vento. Tutto.
Non finiva mai.
Non smettevano mai.
Un ciclo infinito.
Un eterno ritorno.
Morte.
Sangue.
Dolore.
Morte.
Sangue.
Dolore
.
---
Ronova era alla sua decima perlustrazione del dominio.
Ogni giorno ripeteva il giro, controllando che non ci fossero intrusioni, anomalie o segnali sospetti.
Prudenza, diceva. Vigilanza.
Ma quella era solo una scusa.
La verità era che stare chiusa nello stesso luogo, per quanto vasto e maestoso potesse sembrare, diventava insopportabile dopo mesi.
Sempre le stesse stanze. Sempre le stesse persone.
Venti, che non parlava mai.
Sua sorella, che rifiutava ogni contatto emotivo, chiusa nella sua stanza a monitorare una linea temporale che scivolava inesorabilmente verso la rovina.
La solitudine… logorava.
Ronova doveva tenersi occupata. Doveva rimanere lucida, stabile.
Perché se anche lei si fosse spezzata…
Beh, sarebbe finita. Tutto.
E lei non poteva permetterlo.
Doveva essere forte. Per la sua Famiglia. Per la sua Eredità.
Per Teyvat.
Camminava a passo deciso, le spalle rigide ma la testa alta.
Poi, all’improvviso, un rombo.
Il pavimento tremò.
I lampadari oscillarono con violenza.
Le luci iniziarono a sfarfallare come se qualcosa stesse divorando l’energia stessa del luogo.
«Che diavolo...»
Capì subito.
Un altro incubo.
Venti stava perdendo il controllo, di nuovo.
Ma stavolta... qualcosa era diverso. Più potente. Più pericoloso.
Ronova corse lungo i corridoi e raggiunse la porta della sua stanza.
Non esitò a spalancarla.
Venti era lì, riverso sul letto, il corpo contratto in spasmi, il respiro spezzato. Piagnucolava, si dimenava.
Una bomba a orologeria.
Quel ragazzo era una minaccia viva, pulsante.
Ronova si avvicinò piano e si sedette sul bordo del letto.
Non osò toccarlo.
Un solo contatto sbagliato e avrebbe potuto scatenare una catastrofe.
Non le piaceva ammetterlo, ma ultimamente…
Venti le faceva paura.
Non perché fosse malvagio.
Ma perché era sull’orlo del collasso.
Certo, a volte sembrava migliorato.
Ascoltava le sue storie, sorrideva — seppur debolmente.
Ma poi arrivavano quei momenti.
Quando il suo sguardo si spegneva di colpo.
O peggio, quando si accendeva di una rabbia sorda e silenziosa.
Durante gli incubi, Venti diventava qualcosa di altro.
Una tempesta incarnata. Un uragano che non sapeva più distinguere sogno da realtà.
«Venti… È solo un incubo. Sono qui.»
Il ragazzo sussultò.
Poi, la sua voce. Fioca, tremante.
«Basta…»
Era la prima volta che parlava dopo mesi.
Ronova trattenne il fiato.
Incredibile. Come un ragazzo così minuto, con quel viso delicato, potesse contenere dentro di sé una tale furia distruttrice.
Ma forse… non era così sorprendente.
Dopotutto, era uno di loro.
Un membro della Famiglia.
Erede dello stesso sangue.
«Venti, svegliati… ti prego.»
Ronova lo toccò con cautela, sfiorandogli la spalla.
In un istante, gli occhi del ragazzo si spalancarono.
Un’esplosione.
Tutte le finestre della stanza andarono in frantumi contemporaneamente, come se un urlo muto avesse fatto tremare l’intero dominio.
Ronova serrò i denti, costretta a mantenere la calma.
«Hey! Guardami. Sono io. Sono qui.»
Il suo tono era fermo, ma calmo. Un’ancora nel caos.
Venti la fissò, lo sguardo per un attimo vuoto e sperduto… poi qualcosa cambiò.
La nebbia nei suoi occhi si diradò, lasciando spazio a un’ombra di consapevolezza.
Guardò sua zia. Totalmente sconvolto.
Ronova non voleva nemmeno immaginare gli orrori che aveva visto in sogno.
Il dolore che si portava dentro doveva essere abissale.
Per un istante, rimasero lì. Immobili.
Silenzio.
Ronova si chiese cosa dire. Come avvicinarsi.
Ma fu Venti a muoversi per primo.
Con uno scatto disperato, si gettò tra le sue braccia.
Ronova si irrigidì. Il contatto fu improvviso, disarmante.
Ma poi sentì un singhiozzo.
Poi un altro.
E infine un pianto — vero, crudo, tremante.
Venti si strinse a lei come se si stesse aggrappando all’ultima cosa rimasta.
Affondò il volto contro il suo petto, tremando.
La abbracciava.
Ronova rimase pietrificata. Le braccia sospese a mezz’aria, il respiro bloccato.
Non sapeva cosa fare. Non subito.
Poi, lentamente, lo abbracciò.
Prima con esitazione, poi con forza.
Lo strinse a sé. Forte. Come per proteggerlo da tutto quel dolore.
Venti cominciò a piangere più forte.
Si fece piccolo. Così piccolo. Come se volesse sparire.
E Ronova lo tenne stretto.
In silenzio.
Come solo chi ha vissuto la guerra e la perdita sa fare.
Perché in quel momento, Venti non era una bomba.
Non era una divinità.
Non era il Figlio del Vento, del Tempo.
Era solo un ragazzo.
Spezzato.
---
Istaroth correva nei corridoi in rovina, il cuore martellante nel petto.
Non capiva.
Il dominio stava crollando?
Erano sotto attacco?
O... era di nuovo lui?
Non sentiva voci. Nessun urlo. Nessun allarme.
Solo le pareti che gemevano, gli archi che si incrinavano, il silenzio che si frantumava sotto il peso di qualcosa di più profondo.
Poi un'esplosione di vetro. Le finestre esplosero in mille schegge luminose e affilate.
Istaroth si gettò a terra per evitarle. Una scheggia le tagliò la guancia.
«Cosa diavolo sta succedendo?!»
Il pensiero le trafisse la mente come una freccia:
Venti.
Doveva raggiungerlo.
Doveva assicurarsi che stesse bene.
Non avrebbe potuto sopportare di perderlo. Non adesso. Non così.
Arrivò davanti alla sua stanza.
La porta era già aperta.
Entrò in punta di piedi, il fiato sospeso, come se fosse un’intrusa in casa propria.
E lo vide.
Venti era tra le braccia di Ronova.
Lo abbracciava con disperazione, piangeva come un bambino che ha finalmente trovato riparo da una tempesta eterna.
Si aggrappava a lei.
Come se fosse la sua ancora.
Come se fosse... sua madre.
Qualcosa si strinse nello stomaco di Istaroth. Un nodo, improvviso e crudele.
Perché lei?
Perché non me?
Perché con lei si lascia andare, si sfoga, cerca conforto...?
Perché non sono io quella che stringe suo figlio?
Io... sono sua madre.
I singhiozzi di Venti si fecero più forti, spezzando il silenzio come lame.
Istaroth rimase immobile, osservando.
Ogni secondo che passava era come un pugnale piantato più a fondo.
Poi sentì di essere fuori posto.
Un’estranea nel momento più vulnerabile della vita di suo figlio.
Ronova non si accorse di lei.
Nemmeno Venti.
E fu quello a farle più male.
Uscì.
Chiuse la porta con delicatezza.
Come se anche un sussurro potesse rompere quel fragile equilibrio.
Sapeva di meritarselo.
Non era stata lì per lui.
Non nei momenti importanti.
Non quando era più necessario.
Non come una madre dovrebbe.
Ronova sì.
Lei c’era sempre stata.
---
Aether camminava tra le bancarelle del porto, le mani nelle tasche, gli occhi stanchi.
Raccoglieva piccoli oggetti per Zhongli: del cibo caldo, qualche libro, qualcosa che potesse distrarlo... o almeno confortarlo.
Paimon lo seguiva in silenzio. Parlava, ogni tanto, ma non era la stessa di prima.
Non c’era più quella scintilla.
Era come se la luce dentro di lei si fosse affievolita.
Aether si fermò davanti a una bancarella. Un libro attirò la sua attenzione.
Rilegatura consunta, lettere dorate ormai scolorite: “Storia antica di Liyue, Vol. I”
Lo prese in mano, sfogliandolo piano. «Forse gli piacerebbe...» mormorò tra sé.
Paimon sbuffò appena.
«Zhongli le ha vissute, quelle storie. Paimon crede che... sia un po’ inutile, no?»
Aether non rispose subito.
Lei non aveva torto.
Forse avrebbe risvegliato bei ricordi.
O forse... traumi. Rimorsi. Nostalgie troppo pesanti.
Lasciò ricadere il libro sul banco, silenzioso.
«Aether.»
La voce di Paimon lo riportò alla realtà.
«Hm?»
Lei gli si avvicinò, lo guardò dritto negli occhi.
«Perché non usciamo un po’ da Liyue? È tanto che non esploriamo...»
Lui esitò.
«Ma Zhongli...»
«Sopravviverà senza di noi per due ore, no?» disse lei con un mezzo sorriso. «Paimon è quasi certa.»
Aether la guardò. Era difficile dire di no a quegli occhi.
E in fondo... le mancava l'avventura.
Il vento in faccia, i paesaggi nuovi, le voci sconosciute.
Ma si era imposto di restare. Di essere presente. Di non permettersi leggerezza.
Come se fosse un crimine, dopo tutto quello che era successo.
Eppure Paimon era lì. A chiedergli solo un piccolo respiro.
Non per lei.
Per lui.
Sospirò.
«Va bene. Solo due ore.»
Paimon sorrise. Un sorriso vero.
E in quel momento, anche il cuore di Aether parve alleggerirsi. Solo un po’.
---
Aether e Paimon si incamminarono fuori da Liyue. Erano passate due ore, poi quattro, poi cinque.
Aether aveva sentito la mancanza di tutto questo: camminare, combattere, esplorare terre sconosciute, scoprire tesori e reliquie perdute. Gli dava un senso di vita. E non si sentiva vivo da molti mesi ormai.
L’adrenalina che lo spingeva avanti venne improvvisamente spezzata da un fruscio tra i cespugli. E poi—lei.
Lumine.
All’inizio sembrava non averlo notato. Ma quando i loro occhi si incrociarono, si fermò di colpo, paralizzata.
Aether si riscosse subito. Istintivamente strinse la mano sull’elsa dell’arma. Lumine lo fissò, ferita da quel gesto.
«Cosa ci fai qui?» chiese lui, la mascella serrata per trattenere la rabbia. Paimon si nascose dietro di lui, senza dire una parola.
Aether non sapeva più cosa provare per sua sorella. Un tempo erano inseparabili. Ora… ora lei era diventata qualcuno che disprezzava. Qualcuno che aveva ferito i suoi amici, fatto del male a migliaia di persone.
Non l’avrebbe mai perdonata.
Aveva rapito Venti. Lo aveva torturato fino a spezzarlo.
Un tempo era la ragazza che si chinava per salvare un insetto, che stringeva forte i bambini mentre piangevano, che aiutava gli anziani senza mai volere nulla in cambio.
Quella persona era morta. Davanti a lui c’era solo un’ombra consumata dall’odio e dalla vendetta.
«Aether, ti prego… togli la mano dall’arma. Sono sempre tua sorella» sussurrò Lumine.
«Mia sorella è morta nel momento in cui si è proclamata Principessa dell’Abisso. Quando ha fatto del male a migliaia di innocenti. Quando ha rapito e torturato un mio caro amico che ora non c’è più.»
«Non sai cosa ho visto, cosa ho vissuto. I Principi Celesti—»
«Non sei meglio di loro, Lumine,» la interruppe lui. «Ti ho cercata per anni. E quando finalmente ti ho trovata… ho scoperto che guidavi la stessa organizzazione che aveva distrutto tutto ciò che amavo. Poi sei sparita. Mi hai lasciato solo. Di nuovo. Sai com’è stato scoprire che Venti era stato trovato mezzo morto nel vostro dominio, il corpo a pezzi? Sapere che c’eri tu dietro tutto questo mi ha… spezzato. È lì che ho capito che non eri più mia sorella.»
Lumine abbassò lo sguardo. Le parole di Aether la colpivano più di quanto volesse ammettere. Né a lui, né a sé stessa.
«Gli Arconti non sono altro che burattini nelle mani di dei folli genocidi. Restano a guardare mentre il mondo crolla. Qualcuno doveva agire. E noi lo abbiamo fatto. Perché nessun altro aveva il coraggio.»
«E questo giustifica il dolore che hai causato? La tortura che hai inflitto a Venti? Dimmi, ci hai anche goduto, sapendo della sua morte?»
«Venti non è morto,» rispose Lumine, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
Aether la fissò, senza capire. «Cosa? Ora ti diverti anche a prendermi in giro?»
«Sai che non mento mai, Aether. Non ho motivo per farlo. Venti è vivo. E, per un breve periodo… abbiamo anche collaborato.»
«Ma di cosa stai parlando?» chiese Aether, gli occhi colmi di sospetto e confusione.
Paimon spuntò fuori da dietro la sua spalla, spalancando gli occhi. «Aspetta... il bardo stonato è vivo?!»
Lumine annuì lentamente. «Sì. Quando Celestia ha attaccato Mondstadt, l’Abisso si è schierato dalla sua parte… e da quella di altre divinità. Ne abbiamo approfittato per colpirli.»
«Altre divinità?» Aether strinse i pugni. «Chi?»
«Una di loro era la nostra Regina. Solo dopo abbiamo scoperto che era una divinità. Ci ha manipolati sin dall’inizio. Credo abbia qualche tipo di legame con Venti, ma non sappiamo quale. E poi… un’altra divinità si è unita a lei. Anche lei con ali d’angelo.»
«Ali d’angelo…» mormorò Paimon, incredula. Proprio come Venti.
Lumine continuò, con voce più bassa: «Nonostante tutto, le truppe celesti erano troppo forti. L’Abisso è stato decimato. Io… io sono riuscita a fuggire, poco prima della fine. Ma ho visto. Ho osservato la battaglia da lontano. E Venti…»
Fece una pausa.
«Venti non è morto. Anzi… è stato lui a far precipitare l’isola di Celestia.»
Il silenzio fu assordante.
Aether e Paimon la fissarono, scioccati.
«Il… il bardo stonato ha fatto cosa?!» gracchiò Paimon.
«È impossibile,» sussurrò Aether, scuotendo la testa. «Un tale potere… Venti non lo possedeva. Nemmeno nei suoi giorni migliori.»
«È cambiato,» disse Lumine. «credo che la tortura, quello che ha scoperto, vissuto… qualcosa in lui si è spezzato. E da quella frattura è nato qualcosa di diverso. Qualcosa di molto più potente.»
Aether rimase in silenzio. Aveva amato Mondstadt, e Venti era stato uno dei primi ad accoglierlo. L’idea che ora si trovasse solo e ferito da qualche parte... l'avrebbe trovato, ad ogni costo.
«E adesso dov’è?» chiese infine. «Dove si trova Venti?»
Lumine abbassò lo sguardo, incerta. «Non lo so. Dopo quella battaglia, è scomparso.»
Il vento soffiava lieve tra i rami, come se cercasse di spazzare via le parole appena pronunciate, ma non poteva. Non questa volta.
Aether non sapeva più cosa pensare. Ma nel caos di sentimenti che lo dilaniavano, una scintilla si accese nel buio del suo cuore.
Speranza.
Se Venti era davvero vivo, allora non tutto era perduto.
Lo avrebbe trovato. A qualunque costo.
Lo avrebbe riportato a casa. A Mondstadt. Dai suoi amici.
Dove tutto era iniziato.
Poi si voltò, dando le spalle a Lumine. Il cuore gli martellava nel petto, ma il suo sguardo era gelido, immobile.
«Non so più chi sei. E, onestamente, non so se voglio saperlo.»
«Aether…» sussurrò lei, la voce incrinata. Ma era troppo tardi. Le sue parole si dissolsero nel vento.
Paimon rimase immobile per un istante, guardando l’uno e l’altra. Poi, con un piccolo sospiro, fluttuò accanto ad Aether, silenziosa.
Lumine restò lì, sola, tra gli alberi che ormai si piegavano sotto il cielo del tramonto. Le ombre si allungavano attorno a lei, fredde, mute, inesorabili.
E in quel silenzio rotto solo dal fruscio delle foglie, una verità le si annidò dentro, più tagliente di qualsiasi spada:
forse aveva davvero perso suo fratello.
Solo il vento rimase con lei. E tra le sue correnti leggere… un sussurro.
Un’eco lontana.
Una melodia dimenticata.
Come se, da qualche parte, qualcuno stesse ancora suonando.
Chapter 5: Oltre la morte
Notes:
Ciao!
Eccomi con un nuovo capitolo! Spero che vi piaccia. Buona lettura!❤️
Chapter Text
Aether correva come mai aveva fatto prima.
I polmoni bruciavano, le gambe gli imploravano pietà, ma lui non si fermava. Non poteva.
Paimon lo inseguiva, fluttuando affannata. «Aspetta! Aether, fermati!» gridava, ma la sua voce era lontana, attutita. Inutile.
Perché nella mente di Aether riecheggiava solo una frase:
Venti è ancora vivo.
Il cuore gli martellava nel petto come un tamburo di guerra. Doveva raggiungere il primo punto di teletrasporto. Tornare a Liyue. Trovare Zhongli.
Dirglielo.
Dirglielo subito.
Venti è ancora vivo.
Poi avrebbe raggiunto Jean. Diluc. Kaeya. Insieme, avrebbero trovato un modo per rintracciarlo. Per riportarlo a casa. Dove apparteneva.
Perché se Venti era ancora vivo… allora da qualche parte là fuori, forse ferito, forse in pericolo, stava ancora respirando.
E se stava respirando, c’era ancora speranza.
Aether non sapeva perché non fosse tornato. Non sapeva cosa gli fosse successo, dove fosse stato, perché non avesse mandato un messaggio, un segno, qualsiasi cosa.
Ma niente di tutto questo contava.
Contava solo che fosse vivo.
E in quella consapevolezza, qualcosa in Aether si rialzò. Un frammento di sé che credeva sepolto per sempre. Una scintilla di forza. Di fede.
Non era riuscito a salvarlo, quella volta.
Ma adesso sì.
Adesso lo avrebbe trovato.
E lo avrebbe riportato a casa.
Qualsiasi cosa accada.
---
Aether si ritrovò davanti all’ufficio di Zhongli trenta minuti dopo, col fiato corto e le gambe che tremavano. Non era più abituato a certe corse.
Alle sue spalle, Paimon si lamentava a bassa voce — come sempre — nonostante non avesse nemmeno camminato: fluttuava, comoda.
«Potevi almeno aspettarmi! Paimon ha poca resistenza, sai?!»
Ma Aether non l’ascoltava.
Spalancò la porta dell’ufficio senza nemmeno bussare. Il gesto fu improvviso, carico d’urgenza.
Zhongli era lì, seduto come sempre alla sua scrivania, immerso in pile di documenti e rotoli di pergamena. Sembrava una statua scolpita nel dolore — rigida, imperturbabile. Se fosse stato umano, a quell’ora avrebbe avuto occhiaie spaventose e un principio di crollo nervoso. Ma non lo era. Era un dio. E i dèi, almeno esteriormente, restavano in piedi.
«Aether…» mormorò, senza nemmeno sollevare lo sguardo. «Se sei venuto qui per chiedermi un’altra passeggiata nei monti di Liyue, ti dico già di no. Non ho voglia.»
La voce era piatta. Stanca. Lontana da tutto, anche da se stesso.
Aether restò immobile qualche secondo, poi fece un passo avanti. I suoi occhi si fissarono su Zhongli.
«Venti è ancora vivo.»
Il silenzio che calò fu totale. Un battito. Due. Poi Zhongli alzò la testa di scatto.
Gli occhi, per un momento, si spalancarono. Lo guardò davvero per la prima volta da quando era entrato. Poi, lentamente, l’espressione si spense di nuovo, come una fiamma schiacciata da una mano pesante.
«Se questo è un tuo modo… contorto… per farmi stare meglio—»
«No!» sbottò Aether, quasi urlando. «Non sto scherzando!»
Paimon si fece avanti. «È tutto vero! L’ha detto Lumine! Paimon l’ha sentito con le sue orecchie!»
Zhongli strinse le labbra. Il suo sguardo si fece severo.
«Capisco che sia tua sorella…» disse con tono lento, misurato. «Ma è anche la Principessa dell’Abisso. Come potete fidarvi delle sue parole?»
Aether fece un passo avanti, il volto teso.
«Perché la conosco. Abbiamo viaggiato insieme per millenni. So quando mente. So leggere il suo sguardo, il modo in cui tiene le mani, il tono della voce. Era seria. Ha detto che durante l’attacco di Celestia a Mondstadt, l’Abisso si è alleato con Venti e altre due divinità. Hanno combattuto insieme.»
Gli occhi di Zhongli si socchiusero, vigili.
«E poi?»
«L'Abisso è stato decimato. Lumine è fuggita, ma è rimasta nei paraggi, abbastanza vicina da vedere la fine della battaglia. E ha visto Venti sopravvivere. È stato lui a far precipitare Celestia. Con le sue mani. Con il suo potere.»
Un nuovo silenzio si posò sulla stanza. Pesante, irreale.
Aether abbassò un momento lo sguardo, incerto. Poi aggiunse:
«Questa è la parte che mi lascia più… confuso. Voi Arconti avete sempre detto che il vostro potere è nulla in confronto ai Principi Celesti. Come ha fatto Venti a distruggere Celestia?»
Zhongli non rispose subito. Il suo sguardo si perse in un punto vuoto, come se cercasse qualcosa nella memoria. Poi, lentamente, un'ombra di luce brillò nei suoi occhi.
Debole. Ma c’era.
«Ho sempre… sospettato che Venti possedesse capacità fuori dall’ordinario,» mormorò. «Ma mai, mai mi sarei aspettato di vederle realizzate.»
Aether lo guardò confuso.
«Non è tra i più deboli dei Sette Arconti?»
Zhongli scosse la testa con fermezza.
«Assolutamente no. Non a livello di potenziale. È stato debole solo perché non sapeva usare il potere che custodiva dentro di sé. Ma non voglio perdere tempo con vecchie storie.»
Si alzò dalla sedia, con uno sguardo più deciso di prima.
«Pensi che sia intrappolato? Ferito? Perché non è tornato da noi, se è ancora vivo?»
Zhongli rispose come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
«Perché, per quanto Celestia sia stata distrutta, è ancora viva. I Principi Celesti lo stanno ancora cacciando. Muoversi liberamente in Teyvat sarebbe una condanna certa.»
Aether ci pensò su un attimo. Aveva senso.
«Quindi si sta nascondendo da qualche parte?» chiese Paimon, con aria preoccupata.
Zhongli annuì lentamente, poi aggiunse con tono grave:
«E forse so anche dove. Il problema è che per noi è impossibile accedervi.»
Beh... questo non è per niente rassicurante.
«Non c’è alcun modo? Deve esserci una soluzione per raggiungerlo,» rispose Aether, quasi supplicando.
Zhongli scosse la testa. «Un modo c’è, ovviamente, ma dovremmo ottenere l’autorizzazione da loro per accedere. E non so nemmeno come mettermi in contatto.»
«Loro chi?» chiese Paimon, curiosa.
«I Primordiali.»
I due lo guardarono ancora più confusi. Zhongli sospirò profondamente.
«Sono coloro che hanno dato origine alla Teyvat che conosciamo oggi. Venti è figlio di una di loro, ed è per questo che sospettavo che avesse un potere così immenso.»
Spiegò brevemente senza addentrarsi troppo nei dettagli.
«Oh.»
Aether rifletté un momento. «Quindi...? Sono divinità benevole? Oppure dovremmo prepararci a una qualche battaglia?»
Zhongli lo fissò, pensieroso per un attimo.
«Venti non parlava certo bene di sua madre.»
Perfetto.
«L’ha rinnegata a un certo punto. L’ha odiata.»
Molto bene.
«Forse percepiscono i mortali come formiche, non saprei dirti.»
Ottimo.
Zhongli sospirò di nuovo. «Ma queste sono solo speculazioni. Si parla davvero poco di loro. Venti, come sempre, non è mai stato una persona trasparente. Io non credo siano divinità crudeli... ma nemmeno che siano “dalla parte del bene”, sinceramente. Però non posso esserne certo, visto che abbiamo pochissime informazioni.»
«Quindi pensi che Venti sia con loro?» chiese Paimon, la voce un filo più preoccupata.
«Molto probabile,» rispose Zhongli. «Lumine aveva parlato di altre due divinità al fianco di Venti. È possibile che fossero proprio loro.»
«È al sicuro? Viene trattato bene?» domandò Aether, ansioso.
Zhongli corrugò la fronte, la preoccupazione evidente.
«Sua madre ha una morale discutibile. Farebbe qualsiasi cosa per raggiungere i suoi scopi, anche lasciare cadaveri lungo la strada, se li considera insignificanti. Almeno, questo è quello che Venti ha lasciato trapelare.»
Aether e Paimon si scambiarono uno sguardo carico di inquietudine.
«Dobbiamo tirarlo fuori da lì,» disse Aether con decisione.
Zhongli fece un cenno negativo «Credo che la prima cosa da fare sia capire come contattare quei Primordiali e valutare la situazione. Scontrarsi direttamente con divinità di tale potere sarebbe un suicidio.»
«Va bene, allora parlerò con Jean, Diluc e Kaeya,» decise Aether.
«Bene,» confermò Zhongli. «Incontriamoci domani nel mio ufficio, alla stessa ora.»
---
Ronova era nella cucina del dominio, le mani strette sulle tempie per cercare di alleviare quel mal di testa martellante che la tormentava da giorni. Non ricordava più da quanto tempo quella pesantezza non la lasciava in pace.
Non sapeva quanto a lungo sarebbe riuscita a sopportare tutto quel peso sulle sue spalle. Erano passati mesi, eppure tutto sembrava sospeso, immutabile, come se il tempo si fosse fermato.
«Ronova... tutto bene?» Una voce la colse alla sprovvista. Non era quella di sua sorella, quindi...
«Venti?» Si voltò, sorpresa. Aveva parlato per la prima volta da mesi — non considerando il panico nell’incubo — e non solo: era uscito dalla sua stanza dopo tutto quel tempo.
Ronova decise di non lasciarsi andare, di non farlo richiudere dentro di sé di nuovo.
«Tutto bene. Sono solo molto stanca.»
Venti rimase lì, appoggiato al battente della porta, la fissava con un’attenzione nuova.
«Vuoi che ti prepari una tisana?» chiese, con la voce leggermente roca, come se non l’avesse usata da un’eternità.
«Umh... sì, grazie. Mi piacerebbe.» Ronova fece uno sforzo per non fissarlo come se avesse due teste, ma... cavolo, non sapeva come gestire questa nuova situazione.
Forse avrebbe dovuto sentirsi sollevata: Venti stava parlando con lei, era uscito dalla sua stanza e — per di più — si era offerto di farle una tisana. Se non erano passi avanti, questi.
Venti entrò in cucina, ma si fermò subito, come se fosse incerto su cosa fare o dove andare. Gli occhi vagarono per la stanza, senza davvero focalizzarsi su nulla.
«La tisana? Primo cassetto a sinistra. La tazza e il pentolino sono nel ripiano dietro di te, primo sportello a destra.»
Ronova parlò piano, cercando di mantenere un tono tranquillo.
Venti annuì, quasi meccanicamente. «Grazie.»
Si mosse lentamente, ancora spaesato, e iniziò a preparare la tisana.
Il silenzio calò tra loro, pesante, mentre l’acqua iniziava a bollire e le erbe si mescolavano. Poi, con una voce più bassa e incerta del solito, Venti chiese:
«Si sa qualcosa sui principi celesti... quelli sopravvissuti?»
Gli occhi di Venti si fecero più scuri, e per un attimo Ronova scorse qualcosa di diverso in lui, un’ombra di rancore che non c’era prima.
«No,» rispose lei, «silenzio totale. Probabilmente erano sull’isola quando è caduta. Ora si stanno riprendendo, come noi.»
«Come noi...» ripeté Venti, ma quel “come noi” sembrava portare con sé un peso più profondo, una tensione che preoccupava Ronova.
Lei esitò un attimo, poi domandò: «Stai meglio?»
«No.» La risposta fu secca, quasi dura. «Ma non voglio più restare chiuso in questo dolore.»
Ronova annuì, ma dentro di sé sentiva un disagio che non riusciva a scacciare. C’era qualcosa in Venti che stava cambiando, qualcosa che le faceva temere cosa potesse accadere se quella rabbia continuava a crescere.
Venti versò la tisana in due tazze e ne porse una a Ronova. Quando incrociarono gli sguardi, lei colse negli occhi di lui un bagliore cupo, un odio che sembrava covare da troppo tempo.
«Dobbiamo agire, prima che lo facciano loro.»
«Lo so.» Rispose Ronova, «ma non siamo ancora pronti. Dobbiamo essere prudenti.»
«Sono passati mesi, le ferite stanno guarendo. Io mi sento meglio.»
«Ma il potere deve ancora ricaricarsi. Usarlo adesso sarebbe rischioso.»
Venti serrò la mascella, lo sguardo duro. «Aspettare significa dargli tempo per rialzarsi. Non possono più vivere un secondo di più.»
Ronova avvertì un nodo allo stomaco. Vedeva in quegli occhi tutta la rabbia, l’odio e il desiderio di vendetta che lo consumavano. Sperava con tutto sé stessa che Venti riuscisse a mantenere la lucidità e a non agire d’impulso, perché non era sicura di poterlo fermare, se fosse andato oltre.
I due continuarono a sorseggiare la tisana in silenzio. Eppure, per quanto cercasse di rilassarsi, Ronova non riusciva a scrollarsi di dosso quella sensazione di disagio che le serrava lo stomaco.
Poi:
"Ronova."
"Dimmi, Venti."
"Tu... hai ancora con te l’anima di Xiao?"
Ronova si bloccò. Portò lentamente la tazza a terra e la posò sul tavolo, mezza piena.
"Perché me lo chiedi?" domandò, cercando di mantenere un tono neutro.
"Istaroth tempo fa mi ha insegnato a usare il mio potere per riportare in vita animali morti," iniziò lui, lo sguardo fisso sulla tazza tra le mani.
"Xiao... è morto da troppo tempo ormai. Non ha più un corpo, né un’anima libera da cui attingere."
Ronova lo osservò con attenzione. Non le piaceva affatto dove stava andando quel discorso.
"L’anima di Xiao è al sicuro, Venti. È in pace, ed esattamente dove dovrebbe essere."
Seguì un momento di silenzio.
"Quindi... ce l’hai con te?" insistette lui.
Ronova strinse le dita attorno alla tazza. Era inutile tergiversare.
"Sì."
"Potresti restituirmela?"
"Venti," il suo tono si fece più fermo, "l’anima di Xiao non ti appartiene. Ha diritto a riposare in pace."
Venti abbassò lo sguardo. La rabbia gli attraversò il volto come un'ombra silenziosa.
"Non è in pace. Non dopo tutto quello che ha vissuto. Ma io potrei rimediare."
"Riportarlo in vita sarebbe contro natura, e lo sai." Ronova lo fissò, senza abbassare lo sguardo. "Non posso permettertelo."
"Ma con gli animali è stato possibile," ribatté lui con forza. "Istaroth mi ha fatto uccidere milioni di creature per poi riportarle in vita. Perché con Xiao no?"
"Perché il suo destino è infinitamente più complesso di quello di un topo o di un coniglio, Venti." La voce di Ronova si incrinò, ma rimase salda. "La sua esistenza ha un peso sul mondo. Come quella di ogni essere umano, o di una divinità. Le loro morti e le loro vite influenzano tutto ciò che li circonda. Non puoi semplicemente riportarli indietro."
"Allora perché a Natlan lo hai fatto?" incalzò lui, con amarezza.
"Perché lì si trattava di una crisi estrema, un’emergenza che richiedeva un sacrificio. E anche così, le crepe che si sono formate non sono ancora visibili… ma esistono. Se Xiao dovesse tornare, potremmo distruggere l’equilibrio stesso della linea temporale."
Fece una pausa. "Lo so che stai soffrendo, Venti. Ma devi lasciarlo andare. Devi affrontare il lutto. Non puoi restare intrappolato nel passato."
Venti serrò il pugno con tale forza da far impallidire le nocche. La pelle si spezzò, sottile, e una sottile striscia di sangue gli rigò il palmo.
"Venti, basta così. Ti stai facendo del male."
Ronova si alzò di scatto e gli prese la mano con delicatezza.
Ma lui si ritrasse di colpo, liberandosi con uno scatto brusco. Nel movimento, la tazza ancora piena gli scivolò dalle dita, rovinando a terra e frantumandosi in mille schegge di ceramica e tisana bollente.
"Sei stata molto gentile con me, Ronova," mormorò. La voce era piatta, priva di calore. "Ma adesso... scusami. Torno in camera."
Ronova lo fissò, impietrita. Il cuore le batteva forte nel petto. Venti non alzò lo sguardo, non aggiunse nulla. Con passo silenzioso, e lo sguardo cupo perso nel vuoto, lasciò la stanza.
Ronova rimase immobile, gli occhi puntati sulla porta da cui Venti era appena uscito. Il silenzio nella cucina sembrava assordante, spezzato solo dal lento scivolare della tisana sul pavimento, tra le schegge della tazza.
Abbassò lo sguardo sulla mano ancora tesa verso di lui, la stessa che aveva cercato di fermarlo, di trattenerlo… inutilmente.
Un brivido le salì lungo la schiena.
Quel Venti non era più solo un ragazzo spezzato dal dolore.
Era un’anima sull’orlo del precipizio, e il suo passo indietro le era sembrato troppo simile a un passo verso qualcosa di molto, molto più oscuro.
Serrò la mascella.
Avrebbe dovuto tenerlo d’occhio. Prima che fosse troppo tardi.
---
Aether e Paimon arrivarono davanti alla casa di Jean verso le nove di sera. Speravano sinceramente che fosse a casa e non ancora a lavoro. Conoscendo Jean, maniaca del dovere com’era, c’era sempre il rischio che passasse la notte tra scartoffie e strategie.
Con loro grande sollievo, lei aprì la porta quasi subito. E non era sola. Diluc e Kaeya erano lì con lei.
Aether ebbe un attimo di sorpresa. Era raro trovarli tutti e tre nello stesso posto, e quella sera sembrava aver pescato il jolly.
"Dove state andando voi tre?" chiese Paimon, fluttuando dietro Aether con curiosità.
I tre si scambiarono uno sguardo veloce.
"Perlustrazione," dissero in coro, in perfetta sincronia.
Aether alzò un sopracciglio, scettico. "Non ditemi che state ancora esplorando le terre distrutte intorno a Mondstadt. È pericoloso, lo sapete."
"Stiamo solo cercando di capire cosa sia successo... e se c'è qualche traccia che Venti sia ancora vivo," spiegò Kaeya con il tono serio che raramente usava.
"Ancora con questa storia?" sbottò Diluc, ma stavolta la sua voce era più sommessa, meno dura. "Il funerale è stato fatto mesi fa, Kaeya... Venti non c'è più."
Jean sospirò, già stanca all’idea di una nuova discussione.
Aether colse il momento perfetto. Sorrise, e Paimon lo imitò con un luccichio negli occhi.
"Venti è vivo."
Ci fu un attimo di silenzio, poi le loro espressioni cambiarono: lo shock lasciò spazio alla speranza, e la speranza a una confusa euforia.
Ovviamente iniziarono a tempestarlo di domande, e Aether fu felice di raccontare tutto ciò che sapeva — con Paimon che, come sempre, riempiva i silenzi con entusiasmo.
"Siamo sicuri di potersi fidare di tua sorella?" chiese Diluc con tono cauto. "Senza offesa."
Aether sospirò. "Zhongli ha sollevato la stessa preoccupazione... ma io la conosco. So riconoscere quando mente, e non stava mentendo."
Jean annuì, riflettendo. "Zhongli però aveva ragione su un punto: la famiglia di Venti. Poco prima che tutto crollasse, Venti accennò a qualcosa... parlò di una madre, di fratelli, di un’antica guerra con i Principi Celesti. Non entrò nei dettagli, ma era chiaro che quella storia lo tormentava."
"Quindi non è così assurdo pensare che adesso si sia rifugiato con loro," concluse Kaeya, più cupo del solito.
"Cosa vi ha detto Venti, esattamente?" domandò Paimon, inclinando la testa.
"Non molto..." rispose Kaeya, accennando a un mezzo sorriso. "Disse solo che era stato creato... e che sua 'madre' e i suoi 'zii' combattevano da secoli contro i Principi Celesti. Tutto qui."
Aether scosse la testa. "Tipico di Venti, parlare solo a metà. Zhongli mi ha detto che il rapporto con sua madre era... pessimo. Forse peggio di quanto immaginiamo."
"Ed è proprio per questo che siamo qui!" esclamò Paimon, stringendo i pugni con aria decisa. "Non sappiamo se il bardo stonato è davvero al sicuro. Ma una cosa è certa: dobbiamo trovarlo. E riportarlo indietro."
Tutti fecero un cenno deciso, determinati. Avrebbero riportato Venti a casa. Anche se Mondstadt non esisteva più, i suoi cittadini erano ancora vivi, e in qualche modo la loro città sarebbe rinata.
---
Diluc uscì di casa quella stessa sera. Erano quasi le due del mattino, ma il sonno proprio non arrivava. Dentro di sé sentiva un peso nuovo, la speranza che riaffiorava... ma con essa anche la disperazione.
Sì, Venti era vivo . Ma per quanto ancora?
E se qualcosa fosse andato storto?
E se non fossero mai riusciti a trovarlo?
E se Lumine avesse mentito?
E se non avesse visto davvero tutto?
Diluc aveva paura di sperare, perché sapeva che una speranza tradita fa più male di qualsiasi verità crudele. Aveva vissuto abbastanza dolore per capire che, a volte, la speranza non è altro che una lama affilata conficcata in una ferita ancora aperta.
Rivide nella mente l’ultima discussione con Venti: le parole dure, le accuse pesanti. Quei ricordi lo avevano consumato per mesi.
Non voleva che quelle fossero le ultime parole che Venti avrebbe sentito da lui. Voleva chiarire, voleva rimediare.
Ma per ora... doveva mettere da parte il dolore, il senso di colpa, le paranoie. Doveva restare lucido, forte. Solo così sarebbe stato davvero utile. Non poteva permettersi di vacillare.
Diluc rimase fuori, nel freddo della notte, con lo sguardo fisso verso l’orizzonte oscuro. Le strade erano deserte, il silenzio quasi irreale. Il peso di quel segreto, di quella speranza fragile e pericolosa, gli gravava sul petto come un macigno.
Per un istante, chiuse gli occhi e lasciò che un singolo sospiro sfuggisse dalle labbra. Poi, con una decisione silenziosa, si voltò verso casa. Il tempo della paura e del rimpianto era finito. Era il momento di agire.
Il destino di Venti, di Mondstadt e forse di molto di più, dipendeva da lui. E Diluc sapeva che non avrebbe permesso che quella speranza svanisse.
Con passo fermo, sparì nell’oscurità, pronto a lottare contro ogni ombra che si sarebbe frapposta sul suo cammino.
Chapter 6: Il collasso del Tempo
Summary:
Venti è incazzato (termine riduttivo)
Ronova è incazzata
Istaroth è incazzataTutti sono incazzati : )
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Okay questo capitolo è più corto degli altri, ma l'ho voluto appositamente fare terminare in questo modo, a parer mio non andavano aggiunte altre scene.
Questo capitolo è molto importante.In ogni caso spero vi piaccia. Buona lettura <3
Chapter Text
Venti era stanco.
Stanco della solitudine. Stanco di quelle quattro mura che lo inghiottivano ogni giorno un po’ di più. Nessuno gli aveva imposto quella prigione — no, era stato lui a costruirla, pietra dopo pietra, silenzio dopo silenzio. Un esilio volontario. Un autoesilio da tutto.
Non riusciva più a fingere. Non stavolta.
Non riusciva a rimettersi in piedi, a ridere, a cantare, a fingersi ancora quel giullare ubriaco che tutti si aspettavano. Quel teatrino… quella farsa… gli dava il voltastomaco ormai.
Chi era, davvero?
Da quando era asceso, Venti non aveva mai saputo chi fosse davvero.
Non era mai stato Venti.
Era nato impersonando un morto — un ricordo, un’illusione con occhi troppo vivi. Poi era diventato il volto della libertà, il simbolo. Poi il bardo allegro, spensierato, sempre ubriaco, sempre sorridente. Poi ancora il dio assente, svogliato, inutile.
E infine… il rapito. Il traumatizzato.
Forse quella parte era vera.
Forse.
Ma non era solo quello.
Per secoli aveva cambiato volto come si cambia un vestito.
Una maschera. Poi un’altra.
E ancora, e ancora.
Fino a dimenticare dove finisse la recita e dove cominciasse lui.
E ogni volta che incontrava qualcuno — uno sconosciuto, un amico, un amore — il copione si ripeteva: lo conosceva, si affezionava, lo amava. Poi lo perdeva.
Uno schema fisso. Crudele. Un ciclo eterno di attaccamento e morte, affetto e lutto. Come un gioco perverso a cui era condannato, in cui la vittoria non esisteva.
Avrebbe dovuto abituarcisi, no? Tutti gli immortali conoscono questa condanna. Ma a lui sembrava peggio. Perché anche gli altri immortali cadevano. Anche loro morivano. Anche loro sparivano.
E lui?
Lui restava.
Sempre.
E Zhongli... quel povero drago… anche lui era stanco. Anche lui era solo. Ma almeno sembrava rassegnato. Venti, invece, non riusciva a spegnersi. Non ancora. Non così.
Ma se Celestia non fosse mai esistita, tutto questo non sarebbe accaduto.
Tayvat sarebbe stata libera.
L’Abisso avrebbe deposto le armi.
Gli Arconti, gli immortali, tutti loro… avrebbero potuto respirare davvero, per la prima volta.
E invece no.
Celestia esiste. Ancora. Vive. Respira la sua stessa aria. Il suo vento. I suoi fratelli. Loro lo respiravano.
Lui lo sentiva. Ogni giorno. Ogni secondo.
E la cosa lo faceva impazzire.
Non lo sopportava. Non più.
Quei bastardi non meritavano di vivere.
Non dopo ciò che avevano fatto. Non dopo quello che avevano preso.
Dovevano marcire.
Dovevano soffrire.
Dovevano sentire sulla pelle quello che avevano inflitto agli altri.
Occhio per occhio.
Vento per respiro.
Per anni Venti era stato buono. Obbediente. Ribelle, sì… ma inoffensivo.
Un’anima leggera, uno spirito pacato.
Un servo fedele.
Uno stupido.
Basta.
Basta con la pace. Con l’obbedienza. Con i compromessi.
Basta fingere che andasse tutto bene.
Non va tutto bene. Non andrà mai più bene finché loro saranno vivi.
Venti smise di fingere nel momento in cui vide gli occhi di Xiao senza vita.
Li avrebbe riportati indietro. Xiao. Andrius. Himmel.
Tutti.
Avrebbe scavato nel vento, nel tempo
...compreso il suo potere fino all’ultimo sussurro, e poi ne avrebbe ottenuto di più. Di più.
E poi avrebbe ucciso i principi celesti.
Tutti.
E chiunque avesse provato a fermarlo.
---
Istaroth sedeva nella penombra della sua stanza, occhi fissi nel vuoto, orecchie tese come corde pronte a spezzarsi. Ogni sussurro del tempo, ogni deviazione impercettibile del futuro le scivolava addosso come fili sottili d’oro, intrecciandosi tra le sue dita.
Tesseva scenari, interpretava segnali. Percezioni disordinate che tentava di ricomporre in un disegno comprensibile.
Controllava il tempo, sì… ma non la realtà che si consumava intorno a lei.
Quella le sfuggiva sempre.
Poteva solo prevederla. A volte correggerla. Mai dominarla del tutto.
Il suo era un lavoro delicato. Sottile.
Chirurgico.
E questa… questa era la prima volta in cui il corso del tempo mostrava una deviazione simile.
Una vittoria contro Celestia.
Una crepa nell’impossibile.
Ma la guerra non era finita. Il flusso temporale restava instabile, nervoso. Le letture erano disturbate, inquiete. E per quanto cercasse, nessuna linea temporale le restituiva qualcosa di rassicurante. Solo caos. Rottura. Rovina.
Avevano vinto una battaglia… o solo rimandato l’inevitabile?
Il rumore secco di una porta che si spalancava con forza spezzò il suo silenzio.
"Okay, adesso mi sono rotta il cazzo."
La voce era inconfondibile.
Istaroth chiuse gli occhi per un istante, come per trattenere la pazienza, poi sospirò piano. Ronova. Sempre impulsiva. Sempre ardente. Fuoco puro in forma divina.
"È un piacere anche per me vederti, cara sorella," mormorò Istaroth con ironia sottile. "Cos’è che ti turba stavolta?"
Ronova non si prese nemmeno la briga di sedersi.
"Tuo figlio." disse, tagliente come una lama.
Senza mezzi termini. Senza un briciolo di diplomazia.
Appena sentì quelle parole, Istaroth avvertì un peso sordo nello stomaco. Come un colpo ben assestato, silenzioso e inevitabile.
"Ancora con questa storia? Venti ha subito un grande lutto, Ronova. Ha bisogno di tempo," replicò, cercando di mantenere la calma.
"Sono passati quasi sette mesi," ribatté la sorella, gelida. "E non mi pare che stia migliorando. Anzi..."
"Sette mesi non sono nulla, non per qualcosa di quella portata," rispose Istaroth con fermezza, serrando la mascella.
Ronova sospirò, esasperata. "Ovviamente no, ma potresti anche mostrarti presente. Interessarti. Invece di rimanere rinchiusa in questa fottuta stanza a guardare il tempo scorrere. O devo fare tutto io, come sempre?"
"Scusami?" ringhiò Istaroth, voltandosi verso di lei. "Tutto tu? Io qui dentro sto monitorando la linea temporale per evitare il collasso del nostro futuro. Sto sacrificando la mia salute mentale per proteggere voi tutti."
Ronova rise, secca, amara. "No. Tu stai solo facendo quello che ti riesce meglio: scappare."
"Da cosa starei scappando, secondo te?"
"Da tuo figlio."
La stanza parve congelarsi.
"Di cosa hai paura, Istaroth?" continuò Ronova. "Che ti odi? Che ti disprezzi?"
"Non ho paura che mi disprezzi. So che lo fa." Lo disse senza esitazione, quasi con rassegnazione.
"Hai mai provato ad affrontarlo? A parlarci davvero?"
"Non serve. Ogni volta che ho provato ad entrare, non mi ha nemmeno degnata di una risposta. Mi guardava come se fossi un'estranea. Mi sembra chiaro il messaggio."
"Quindi basta così? Ti arrendi al primo tentativo?"
"Non voglio aggravare la sua sofferenza. Non posso restare accanto a qualcuno che mi odia. Gli farei solo più male."
"Per l'amore degli dei, Venti faceva lo stesso con me! Ma io non me ne sono andata via in silenzio. Ho insistito."
"Ho visto quanto vi siete legati," mormorò Istaroth, con un filo di qualcosa che non osava chiamare invidia.
"Scusa?"
"Ho visto come ti stringeva. Come piangeva tra le tue braccia. Non ha bisogno di me."
Ronova la fissò a lungo. E nei suoi occhi c'era qualcosa che faceva più male del disprezzo: delusione.
"Sei sempre stata una codarda."
Gli occhi di Istaroth si spalancarono, colpiti da una verità che non voleva sentire.
"Ho solo fatto quello che avresti dovuto fare tu. Gli ho dato una presenza, una voce amica. Qualcuno che stesse lì, anche in silenzio. E sai cosa? È per questo che si è lasciato andare. Perché io sono rimasta. Tu no."
"Avevo altre responsabilità," disse Istaroth, cercando di convincere più sé stessa che l’altra.
"Più importanti di tuo figlio?"
"Ci sono delle priorità."
Ronova scosse il capo. "Quando smetterai di scappare, sarà troppo tardi."
"Non sto scappando," rispose Istaroth, gelida.
"Puoi mentire a te stessa quanto vuoi. Ma non a me. E neanche a lui. Venti ha bisogno di aiuto."
"E come dovrei aiutarlo se non esce dalla sua stanza? Se non parla?"
"Oh, ha parlato."
Ronova la guardò dritta negli occhi. "E ha anche lasciato la sua stanza."
Il silenzio che seguì fu glaciale. Istaroth sbiancò, pietrificata.
"E lo avresti saputo... se solo fossi stata presente," aggiunse Ronova.
Istaroth si irrigidì, ma cercò di riprendere il controllo. "Beh… è una buona notizia, allora."
"No. Non lo è."
La voce di Ronova era più bassa, ma ancora più tagliente.
Istaroth rimase in silenzio, le braccia incrociate sul petto, il volto teso. Aspettava che Ronova parlasse ancora, ma dentro di sé si preparava già a confutarla.
"Non mi piace la piega che sta prendendo," disse infine Ronova, con voce bassa ma tagliente. "È pieno di odio, di rabbia… di vendetta. Il suo sguardo mi ha inquietata. C’è qualcosa di rotto dentro di lui, e non credo che stia cercando di guarire. Ho la netta sensazione che potrebbe fare una cazzata. Una di quelle grosse. Non è più lucido."
Istaroth scoppiò a ridere. Ma era una risata vuota, stonata. "Mio figlio? Quello che piangeva se calpestava per sbaglio una formica? Quello che si scusava con gli alberi se li toccava troppo forte? Pieno di odio e vendetta? Dai, Ronova. Sei paranoica."
"Il dolore cambia le persone." Le parole di Ronova uscirono secche, senza esitazione. "Io sono la Signora della Morte. Ne sento l’odore, Istaroth. È in lui. E non solo la sua. Venti è intriso di sentimenti che possono portare altra morte… e lo faranno, se non viene fermato."
Istaroth strinse la mascella. "Tu non lo conosci come lo conosco io. Solo perché gli sei stata vicina qualche mese, ora ti senti in grado di leggere la sua anima?"
Ronova si voltò di scatto, il suo sguardo ora pieno di qualcosa che sfiorava la rabbia. "Forse non lo conosco davvero, no. Ma conosco bene il vuoto. La disperazione. So riconoscere quegli occhi — li ho visti in troppi volti che stavano per compiere l’irrecuperabile. E lui li ha. Occhi di chi non ha più niente da perdere. E sai cosa penso? Penso che tu non lo conosca affatto come credi."
Poi, dopo un momento di silenzio pesante, aggiunse:
"Mi ha chiesto di restituire l’anima di Xiao."
Istaroth alzò di scatto lo sguardo, gli occhi più spalancati di quanto volesse mostrare.
"Quando gli ho detto che era contro natura riportare in vita un morto, che poteva compromettere l’equilibrio stesso dell’universo… lui ha insistito. Non ha pianto. Non ha urlato. Solo… mi ha guardata. E in quegli occhi non c’era più luce, né umanità. Solo un vuoto gelido, e una determinazione che fa paura."
"È solo disperazione," borbottò Istaroth, stavolta senza troppa convinzione.
"No. È oltre la disperazione," ribatté Ronova. "Venti vuole solo una cosa: riavere i suoi cari. E non gli importa del prezzo. Né del suo, né del mio, né del tuo. Né di quello che pagheremo tutti noi. È disposto a distruggere tutto pur di averli indietro."
Istaroth guardò i filamenti d’oro sospesi attorno a lei, intrecciati come vene di luce viva. Vibravano. Si contorcevano. Alcuni si spezzavano in frantumi microscopici prima ancora di raggiungere un punto futuro. Erano instabili, impazziti.
Il futuro era in frantumi.
Le sue dita si fermarono a mezz’aria, incapaci di tessere altro. Le percezioni le si riversarono nella mente come un’onda: caos, disordine, crolli improvvisi, sofferenze infinite. Rovine. L’eco di un mondo che si sgretola.
Non per mano dei Celesti.
Non per colpa loro, questa volta.
La domanda le si formò lentamente nella mente, come un sussurro velenoso, un dubbio che le scavava dentro da giorni… ma che aveva sempre scacciato.
Possibile che non siano i Principi Celesti?
Un brivido gelido le attraversò la schiena.
Possibile che fosse proprio suo figlio la causa di tutto questo?
Chapter 7: Non importa il prezzo da pagare
Notes:
Eccomi con il nuovo aggiornamento! Mi scuso per l'attesa, spero che questo capitolo vi piaccia.
Buona lettura ♥️
Chapter Text
Zhongli stava attraversando uno dei periodi più bui della sua lunga esistenza.
E ne aveva vissute tante, in oltre seimila anni.
Aveva appena realizzato la morte di Xiao — ormai un figlio per lui, anche se non l’aveva mai detto ad alta voce. Non l’aveva compreso davvero, fino a quando Xiao non era più lì.
Aveva perso il suo migliore amico.
Una delle poche divinità sopravvissute al tempo, una presenza costante mentre tutto attorno a lui svaniva. Morax e Barbatos: sembravano destinati a durare insieme nei secoli.
Tanto che, dopo il Cataclisma, quando molti Arconti avevano trovato la morte, i due si erano fatti una promessa:
se mai fossero morti… lo avrebbero fatto insieme.
Ma così non fu.
Venti morì all’improvviso, in modo caotico, inaspettato.
E con lui, morì anche Mondstadt.
Non la sua gente — quella era sopravvissuta, per fortuna — ma lo spirito della città e la città stessa, era andata in frantumi. Come se ogni cosa che potesse anche solo ricordare Barbatos fosse persa per sempre.
Zhongli avrebbe fatto di tutto per aiutare quei cittadini.
Era ciò che Venti avrebbe voluto.
Ed è anche l’unico motivo per cui, dopo la morte di Xiao e di Venti, Morax non si era ancora tolto la vita.
Aveva ancora una missione da compiere.
Aiutare Mondstadt a rinascere.
Per questo si era chiuso nel suo ufficio: non solo per sfuggire al dolore, ma per portare a termine uno dei desideri che il suo amico, ne era certo, avrebbe voluto vedere realizzato.
Una volta compiuto il suo dovere…
li avrebbe raggiunti... entrambi.
O almeno, quello era il suo intento iniziale.
Fino a quando Aether non irruppe nel suo ufficio, affermando che Venti non era davvero morto. Che era ancora da qualche parte, in vita.
Anche se non sapeva dire in che condizioni.
Zhongli, all’inizio, era rimasto incredulo. Scettico.
Negli ultimi mesi, Aether si era aggrappato a lui come a un’àncora, invadendo il suo spazio, cercando di tirarlo fuori dal suo isolamento. Probabilmente nel tentativo di soffocare un senso di colpa che, almeno secondo Zhongli, non aveva motivo di esistere.
Non l’aveva mai giudicato per questo.
Per quanto a volte Aether fosse risultato invadente, estenuante con i suoi tentativi goffi ma sinceri… Zhongli era solo un vecchio drago stanco, che voleva semplicemente lasciare andare tutto.
Eppure lo capiva. Non del tutto, ma abbastanza.
Ciò che Aether aveva detto era una bomba.
Una scintilla che poteva illuminare tutto ciò che aveva perduto… o ridurlo definitivamente in cenere.
Una speranza pericolosa.
Una verità che, se confermata, avrebbe potuto arrivare troppo tardi.
O, forse, ferire più della menzogna.
Zhongli non sapeva se avrebbe avuto la forza di affrontare una cosa del genere.
Non ancora. Non di nuovo.
Ma se il suo amico era davvero là fuori… Zhongli non poteva restare fermo.
Non poteva far finta di nulla.
Doveva agire, doveva fare tutto il possibile per aiutare gli altri.
Avrebbe continuato a piangere per Xiao, a soffrire per la sua perdita ogni singolo giorno — ma almeno, al suo fianco, ci sarebbe stata una persona in grado di comprenderlo davvero.
Una persona che aveva conosciuto Xiao, che lo aveva amato. Che avrebbe condiviso quel dolore. E insieme, forse, avrebbero trovato la forza di andare avanti.
Era molto probabile che, in quel momento, Venti si trovasse nelle mani dei Primordiali — tecnicamente, la sua famiglia.
Anche se Zhongli non sapeva in quali condizioni. Né se avesse scelto di seguirli… o se fosse stato costretto.
Non li conosceva, non davvero.
Aveva sentito parlare di loro, certo. Ma mai in termini rassicuranti.
Sì, avevano contribuito all’umanità in più di un’occasione… ma non per bontà d’animo. Almeno, non secondo lui.
Erano esseri talmente potenti e distaccati da non agire mai per compassione, ma piuttosto secondo logiche che sfuggivano alla comprensione degli esseri mortali — e anche a quella degli dèi come lui.
E l’idea che Venti fosse con loro...
Lo terrorizzava.
Venti era luce. Era risate fragili come il vetro e cuori cuciti con note di vento.
Sensibile, amabile, pieno di una gentilezza istintiva che lo aveva sempre reso diverso da tutti gli altri Arconti.
Non meritava tutto questo. Non meritava catene invisibili. Non meritava di essere lontano da chi lo amava.
E soprattutto… non lo vedeva accanto a quelle divinità fredde, distanti, insondabili.
Ma erano davvero così?
Zhongli non voleva condannarli per pregiudizio.
Non li aveva mai conosciuti di persona.
Eppure… le poche volte in cui Venti aveva accennato a sua madre, le sue parole erano cariche di ombre.
E quelle ombre, ora, si stavano facendo sempre più fitte.
E poi… c’era un’altra cosa.
Qualcosa che non riusciva a togliersi dalla mente.
Qualcosa che, più che preoccuparlo, lo metteva profondamente in crisi.
Perché non riusciva a crederci. Non voleva crederci.
Aether aveva affermato che sua sorella, Lumine, aveva visto con i propri occhi Venti...
vivo.
E non solo: lo aveva visto far cadere Celestia dal cielo.
Un atto assurdo.
Impensabile.
Irrealizzabile, persino per un Arconte.
Eppure, secondo le parole di Lumine, Venti ci era riuscito.
Zhongli non sapeva cosa pensare.
Poteva fidarsi davvero di lei?
Lumine apparteneva all’Abisso. Ai nemici.
Alle forze che per secoli avevano minacciato l’equilibrio stesso di Teyvat.
Le sue parole erano affidabili… o solo parte di una più ampia manipolazione?
Non lo sapeva.
E quel dubbio gli scavava dentro come il tempo stesso.
Ma una cosa era certa:
Celestia era caduta.
Qualcuno l’aveva fatta precipitare.
E se davvero fosse stato Venti…
Zhongli non riusciva nemmeno a formularlo, quel pensiero.
Venti era sempre stato lo spirito libero e spensierato del gruppo.
Sciocco, sì. In apparenza frivolo.
Ma mai pericoloso. Mai in grado di compiere qualcosa di simile.
Eppure, negli ultimi tempi, i suoi poteri avevano iniziato a mostrare segni di instabilità.
Aveva notato quelle crepe… ma non avrebbe mai immaginato che potessero esplodere in qualcosa del genere.
E tuttavia, forse, non avrebbe nemmeno dovuto stupirsi.
Venti non era solo l’Arconte di Mondstadt.
Era il figlio di una divinità Primordiale.
Un’eredità che portava in sé la scintilla originaria — quella che aveva dato vita all’universo stesso.
Una forza ancestrale, inimmaginabile, incontrollabile.
Zhongli inspirò lentamente, tentando di tenere a bada l’angoscia.
Perché se tutto questo era vero…
allora non sapeva più se avrebbe ritrovato il suo amico.
O qualcosa di profondamente diverso.
---
Venti era uscito da quelle immense mura.
Non le sopportava più.
Gli stringevano il petto, gli toglievano il respiro.
Non erano il posto giusto per allenarsi, né tantomeno per pensare.
Perché se voleva davvero riportare in vita Xiao, allora doveva agire.
Prepararsi.
Capire come accedere alla sua anima.
E soprattutto… come ricostruire un corpo che non esisteva più.
Era una missione folle. Troppo complessa, forse anche per lui.
La soluzione più semplice? Tornare indietro nel tempo.
Impedire la morte. Cambiare il corso degli eventi.
Ma non lo aveva mai fatto prima.
E temeva il prezzo.
Cambiare il passato significava camminare su una lama sottile:
avrebbe potuto salvare Xiao, sì…
ma rischiava anche di perdere tutto il resto.
Andrius. Mondstadt. Se stesso.
Tornare a quei giorni significava rientrare in quella guerra sanguinosa,
una guerra in cui a malapena era sopravvissuto.
E se moriva lì?
Ogni tentativo, ogni speranza, ogni gesto…
tutto si sarebbe frantumato nel nulla.
Non poteva correre quel rischio.
Non adesso.
Non quando Istaroth stessa non avrebbe potuto proteggerlo —
lei che era stata accanto a lui nel caos,
lei che aveva combattuto a fianco degli dèi mentre la storia si spezzava.
No.
Doveva trovare un altro modo.
Uno che non spezzasse la linea del tempo.
Uno che non contaminasse la natura.
Uno che non squilibrasse l’universo stesso.
Ronova era stata chiara:
"È impossibile, Venti. Non si può fare."
Ma lui non era fatto per seguire le regole.
Non lo era mai stato.
Lui era il vento.
Il cambiamento.
Il moto perpetuo del divenire.
La voce che si insinua fra le crepe della realtà.
Lui era ogni cosa.
E se l’universo gli diceva di fermarsi…
lui avrebbe risposto con una risata e un passo oltre il confine.
Eppure, per quanto ci provasse, non otteneva nulla.
Nessuna traccia, nessun legame, nessun frammento a cui aggrapparsi per ricollegarsi a Xiao.
Solo silenzio. Vuoto.
Se solo Ronova avesse collaborato...
«Cosa stai facendo?»
Una voce alle sue spalle, accompagnata da passi leggeri.
Venti non aveva bisogno di voltarsi per riconoscerla.
Istaroth.
Quando la guardò, vide sul suo volto la stessa stanchezza che sentiva addosso lui.
La stessa che pesava su Ronova.
Tutti si stavano consumando, lentamente, in quel dominio senza tempo.
Per fortuna, almeno, quel luogo aveva un giardino. Un piccolo spazio d’aria e verde dove potevi respirare senza sentirti schiacciare.
«Mi sto allenando,» rispose lui, asciutto.
Istaroth sussultò.
Era la prima volta che lo sentiva parlare da mesi.
«Capisco...» mormorò, incerta.
«Ti posso aiutare con qualcosa?»
Gli si avvicinò, sedendosi accanto con cautela, quasi temesse di disturbarlo.
Venti rimase in piedi, lo sguardo diffidente.
Era tornata ora? Dopo tutto quel silenzio?
«Ronova ti ha raccontato tutto, vero?»
Non era una domanda.
Era una sentenza.
Venti poteva sembrare sciocco agli occhi degli altri… ma era molto più lucido di quanto lasciasse credere.
Istaroth sospirò.
«Sì… e ti dirò, era sinceramente preoccupata.»
Venti non rispose subito.
Poi, con un movimento lento, si sedette accanto a lei.
«E tu? Tu cosa ne pensi?»
La sua voce era bassa, quasi un sussurro. Ma piena di qualcosa che non era rassegnazione. Era attesa. Forse anche rabbia.
Istaroth lo guardò negli occhi, sinceramente.
«Penso che abbia ragione.»
Una pausa.
«Stranamente, sì. Non puoi riportare indietro una persona morta.
E soprattutto non un immortale.»
Venti lasciò uscire un breve sorriso amaro.
«Mi hai sempre detto di seguire il mio cuore, no?»
Lo disse con un filo di sarcasmo.
Istaroth scosse la testa.
«Non se il prezzo è l’universo, Venti.
Hai un cuore immenso… ma proprio per questo, dovresti capire.»
Quelle parole lo pietrificarono.
Lui non voleva distruggere niente.
Non voleva ferire nessuno.
Non voleva spezzare l’equilibrio del mondo.
Solo… voleva indietro Xiao.
«E allora spiegami questo.»
Il suo tono si fece più duro.
«Ho visto con i miei occhi le vostre “regole” piegarsi.
Ho visto la morte trattata come un capriccio.
Natlan è famosa per la sua resurrezione, e io non posso riportare indietro un mio caro?»
«Natlan segue leggi diverse,» spiegò Istaroth, con pazienza.
«E Xiao… è un immortale. Il suo ritorno avrebbe un peso enorme sull’equilibrio cosmico.»
Venti scattò in piedi, il vento agitando i suoi capelli.
«Non prendermi in giro!»
La voce gli tremava, ma era ferma.
«Tu mi hai salvato dalla morte. Più volte. Lo so. Lo sento.
E anch’io sono immortale.
E sai cosa vedo?
Gente che si fa i fatti propri quando serve,
e poi si sveglia a fare la morale quando è troppo tardi.»
Istaroth abbassò lo sguardo, intrecciando le mani in grembo.
«Non è così semplice…»
Inspirò piano, come se pesasse ogni parola.
«Venti, tu… tu sei come noi.
Come me, come gli altri Primordiali.
Tu non appartieni davvero al tempo.
Lo attraversi, lo plasmi…
Ma non lo subisci.»
Lo guardò negli occhi, e per un attimo non era più la Dea dei Momenti, ma solo una creatura stanca.
«È per questo che… che quando sei morto, ho potuto riportarti indietro.
Non hai lasciato cicatrici sull’universo, perché non sei vincolato alla sua linea temporale.
Come un’onda che torna sempre a riva, anche se affonda.»
Venti non parlava, ma ascoltava. Attento. Teso.
«Ma Xiao… Xiao no. Lui è un immortale, sì. Ma non è eterno.
Lui è ancorato al tempo.
Ogni suo passo, ogni suo respiro, ha lasciato una traccia nella trama del mondo.
Strappare quella traccia via… riportarlo indietro…
sarebbe come forzare l’universo a riscrivere sé stesso.»
Fece una pausa.
«E quando lo si costringe a farlo…
qualcosa, o qualcuno, paga il prezzo.»
Venti rimase in silenzio per un lungo momento.
Istaroth, accanto a lui, trattenne il respiro. Forse... forse finalmente era riuscita a raggiungerlo.
Ma poi lui parlò.
«Ci deve essere un modo, no? Un modo per impedire che l’universo si ribelli. Qualcosa deve esistere. Esiste sempre.»
Istaroth si irrigidì. Il breve sollievo si dissolse come nebbia al sole.
«No. In questo caso, temo di no.»
«Ma ci hai mai provato davvero?» chiese Venti, con voce ferma. La domanda era retorica, ma tagliente.
Istaroth lo fulminò con lo sguardo. «Ovviamente no!
Perché se lo avessi fatto, saremmo tutti morti! La linea temporale collasserebbe su sé stessa!»
«Appunto.» Venti annuì, come se avesse appena dimostrato il suo punto.
«Non ci hai provato. Non hai mai cercato una soluzione. Non hai mai osato.
Io sì.
Io lo farò.»
Il suo sguardo era acceso, vivo. Ma c’era qualcosa in quella luce… qualcosa che bruciava troppo in fretta.
«Riporterò in vita Xiao. E non danneggerò nessuno.
Tu riesci a immaginare cosa significherebbe? I benefici, le possibilità?
Non solo per me. Non solo per lui.
Se riuscissimo a superare le leggi della natura... a piegarle con delicatezza, in silenzio... potremmo annullare la sofferenza. Il lutto.
Potremmo regalare la felicità.
E soprattutto, potremmo liberarci una volta per tutte dal giogo di Celestia.»
Istaroth non rispose subito.
Lo guardava. Non come si guarda un folle.
Ma come si guarda qualcuno che si sta per perdere – e che ci crede davvero.
«Venti… ascoltati. Tu non stai parlando più solo per amore. Questa… questa è arroganza. È la presunzione di chi vuole riscrivere le leggi stesse dell’universo.»
Lui si voltò verso di lei, lo sguardo acceso da una luce nuova. Non folle, non crudele.
Ma assoluta, inarrestabile.
«Forse sì. O forse no. Ma qualcuno deve pur cominciare, no?»
Fece un passo avanti, il vento sollevava i suoi capelli.
«Abbiamo lasciato che Celestia dominasse in nome di un ordine immutabile. Abbiamo visto sofferenze, guerre, vite spezzate... e tutto per cosa? Perché è così che deve essere?»
Scosse la testa.
«Io non accetto più quella risposta.»
«E se il prezzo fosse tutto ciò che esiste?» sussurrò Istaroth, la voce incrinata.
«E se l’universo, per conservare l’equilibrio, decidesse di spezzare qualcos’altro? Un mondo intero?»
Venti chiuse gli occhi per un istante. Quando li riaprì, la sua voce era più bassa.
«Allora starà a me trovare un modo per evitarlo.
Non sono uno che si arrende. Non più.»
Istaroth si alzò lentamente.
«Tu… sei diventato qualcosa che non riconosco più.»
Lui sorrise appena, triste.
«O forse sono finalmente diventato ciò che sono sempre stato.»
Venti si alzò, pronto ad andarsene, ma Istaroth lo afferrò bruscamente per il polso. Il contatto fu improvviso. Il suo corpo si irrigidì come per istinto.
«Dove pensi di andare? Non ti permetterò di fare nulla. È troppo rischioso.»
La pressione sulla sua pelle era insopportabile. Il polso cominciò a bruciargli, poi a ghiacciarsi.
Un nodo gli serrò la gola.
Strinse la mandibola, cercando di mantenere il controllo.
«Lasciami andare.»
La voce gli tremava appena, ma era pericolosamente tesa.
«Venti, devi capire che—»
Non stava più ascoltando.
C'era solo la sensazione del polso bloccato. Il respiro sempre più corto.
Era di nuovo lì.
Nell’Abisso.
I ferri ai polsi. Il metallo che tagliava. Il sangue. Le catene.
E le risate. Quelle risate.
«...voglio che tu capisca che il potere che hai nelle mani è pericoloso, e devi essere responsabile...»
Responsabile?
Lo avevano lasciato solo. Tutti.
Tutti morti. Barbatos non esisteva più.
Solo catene. Solo silenzio.
Perché non riusciva a respirare?
«Ti prego... lasciami andare.»
Un sussurro tremante. Ma Istaroth non capì. Non vedeva.
La sua mano ancora stretta sul suo polso.
Non aggressiva. Ma ferrea. Come quelle dell’Abisso.
«No. Finché non mi assicurerò che non farai qualcosa di sconsiderato. Forse è meglio che ti tenga d’occhio.»
Il cuore di Venti martellava nel petto. Cercò di liberarsi, ma la presa non cedeva.
«Venti, basta! Ti prego, voglio aiutarti!»
Bloccato.
Bloccato.
Ancora.
Sempre.
Lasciami andare.
Lasciami andare.
Lasciami andare.
«TI HO DETTO DI LASCIARMI ANDARE!»
Il vento esplose. Una raffica violenta, carica di panico e potere primordiale.
Istaroth fu scagliata lontano, sbattendo contro la parete del dominio con un boato sordo. Il muro si frantumò attorno a lei.
Cadde a terra, stordita, una mano alla testa.
«Ma... cosa...?» sussurrò, cercando di rialzarsi.
Venti rimase immobile. Il respiro spezzato, gli occhi sgranati. Paura. Colpa. Ma anche una nuova, glaciale determinazione.
Era il momento.
Era libero.
Si voltò verso l’uscita.
Prossimo passo?
Tornare a Teyvat.
Trovare Naberius.
O meglio... Rhinedottir.
Chi, se non la Signora della Vita, poteva aiutarlo a riportare indietro Xiao?
---
Istaroth rimase a terra, la schiena contro la parete incrinata del dominio, il respiro lento, quasi impercettibile.
Il colpo non le aveva fatto molto male. Non fisicamente.
Ma il vuoto lasciato nello sguardo di Venti… quello sì. Quel gelo che le era scivolato nel petto, quello le pesava più di qualsiasi frattura.
Per anni, eoni forse, lo aveva osservato crescere, sbocciare nel dio che conosceva.
Non era stato creato per distruggere.
Era nato per proteggere, per dare voce ai sogni e libertà ai cuori.
E ora… ora non cantava più. Ora cercava di sfidare le fondamenta della realtà con la disperazione di chi ha perso troppo, e troppo in fretta.
Si portò una mano alle tempie, cercando di contenere il ronzio nel cranio.
Il vento, ancora impregnato di quella ribellione violenta, le pungeva la pelle come aghi invisibili.
Era come se il dominio stesso si fosse ammutolito.
Come se tutto, in quel momento, avesse trattenuto il respiro.
Venti si era voltato una sola volta. Un’esitazione. Un rimorso.
Ma nei suoi occhi non c’era più spazio per la paura.
Solo una volontà ferrea, cristallina e pericolosa.
Il dio della libertà aveva deciso di rompere le catene della morte.
E in quella scelta… aveva forgiato da solo la sua nuova prigione.
«In cosa ti stai trasformando, piccolo vento?» mormorò Istaroth, lasciando ricadere la testa contro la parete.
«Quante cose sarai disposto a sacrificare per lui?»
Ma nessuno rispose.
Perché Venti era già svanito, diretto verso Tayvat per mantenere una promessa pericolosa e impossibile da realizzare.
E mentre le fratture nel dominio lentamente si richiudevano, Istaroth comprese che da quel momento in poi, nulla sarebbe più stato uguale.
Né per Teyvat.
Né per Venti.
Né per chiunque avesse mai osato fissarlo negli occhi e dirgli di no.
Perché Venti lo avrebbe fatto comunque.
Perché Venti lo stava già facendo.
E avrebbe sfidato la morte stessa, piegato le leggi del tempo e della creazione,
pur di strappare Xiao indietro.
A qualsiasi costo.
Chapter 8: La Signora della Vita
Notes:
Ciao a tutti! ♥️
Scusate l'attesa ma sono in sessione di esami! Il capitolo è leggermente più lungo del solito, spero che vi piaccia.
Buona lettura <3
Chapter Text
Quando Venti tornò a Teyvat, fu come risvegliarsi da un lungo incubo.
Il vento gli accarezzò la pelle come un vecchio amico, la brezza familiare gli sfiorò i capelli e l’aria fresca gli riempì i polmoni. Era di nuovo a casa.
Libero.
Vivo.
Aveva dimenticato quanto potesse mancargli quel profumo d’erba e rugiada, quanto gli fosse mancato il cielo aperto sopra la testa. Dopo tanto tempo nel dominio, ogni respiro ora aveva il sapore della rinascita.
Ma la pace fu effimera.
Perché appena alzò lo sguardo, il cuore gli si raggelò nel petto.
Là, dove un tempo si ergeva Mondstadt, ora giacevano solo rovine. Macerie.
Celestia era collassata — letteralmente — sulla sua città.
Non era rimasto nulla. Nemmeno le fondamenta.
Solo polvere e ombre.
E il peggio era che… era stato lui.
Era stato lui a causarlo.
Secoli passati a salvare, a proteggere. Anni a costruire un nuovo futuro per il suo popolo, per onorare la promessa fatta a un amico ormai perduto.
E ora, tutto era svanito.
Ridotto in cenere sotto il peso crudele di una divinità caduta.
Venti abbassò lo sguardo sulle sue mani, le osservò tremare leggermente, ancora imbevute di un potere che non aveva ancora imparato a controllare.
Un potere che lo spaventava.
Un potere che… lo seduceva.
Aveva fatto crollare Celestia.
Cosa altro avrebbe potuto fare, se solo avesse imparato a dominarlo?
Sorrise.
Un sorriso amaro, quasi triste.
Ma i suoi occhi rimasero vuoti, gelidi, oscuri.
Avrebbe riscritto quel mondo.
Lo avrebbe riforgiato in qualcosa di nuovo. Di giusto. Di libero.
Basta catene invisibili. Basta equilibri imposti.
Basta lacrime.
E così, Venti iniziò a camminare.
Non si teletrasportò. Non volò.
Scelse di camminare.
Di sentire la terra sotto i piedi, di ascoltare ogni sussurro del vento, di assaporare ogni angolo di quella terra che avrebbe cambiato per sempre.
La sua meta era chiara: Rhinedottir.
Solo lei avrebbe potuto aiutarlo.
Lei, con le sue conoscenze proibite, con i suoi esperimenti innominabili, con i frammenti dell'antico Naberius ancora celati nella sua anima.
Solo lei poteva aiutarlo a piegare la morte.
A riportare Xiao indietro.
A piegare l’universo stesso al suo volere.
E questa volta, nessuno lo avrebbe fermato.
---
Dopo molte ore di cammino, Venti lasciò definitivamente alle spalle ciò che restava di Mondstadt, con un groppo duro e amaro ancora incastrato in gola. Non osò voltarsi.
L’unica cosa che gli dava conforto, che gli permetteva di continuare a muovere un piede dopo l’altro, era sapere che i suoi figli erano vivi. Sparsi, nascosti, lontani… ma vivi.
I suoi fratelli si erano assicurati che lui lo sapesse: erano riusciti a fuggire, a scampare alla furia cieca della guerra.
Questo bastava, per ora.
La terra cominciò a cambiare sotto i suoi passi: l’aria si fece più umida, più fredda, e il vento portava con sé l’odore della neve, delle cortecce spoglie e dei ghiacci eterni.
Era vicino.
Lei era vicina.
Venti chiuse gli occhi e percepì il suo potere.
Antico. Primordiale. Crudo e arrogante come una ferita mai rimarginata.
Un potere affine al suo. Un potere che si riconoscevano a vicenda, come due lupi che si fiutano nella notte.
Rhinedottir.
Probabilmente anche lei lo aveva già percepito.
Anzi, ne era certo.
Davanti a lui, isolata tra gli alberi spogli al confine di Snezhnaya, apparve una piccola casa. Umile. Quasi fatiscente. Sembrava più una baracca dimenticata che la dimora della famigerata alchimista.
Venti inarcò le sopracciglia.
Non era certo ciò che si sarebbe aspettato. Rhinedottir non era mai stata un modello di umiltà.
Avanzò senza esitazioni. Non bussò. Non chiese il permesso.
Entrò.
Il suo passo era sicuro, ma i suoi sensi erano tesi. Pronto a ogni reazione.
L’interno era… strano. Eppure familiare.
Un piccolo salotto caotico, impregnato di polvere e tempo.
Un tavolo colmo di appunti, pergamene sparse, formule alchemiche e provette mezze vuote. Un ambiente che sembrava vissuto eppure abbandonato allo stesso tempo.
E poi, su un divano scolorito, lei.
Rhinedottir.
Era irriconoscibile.
Pallida. Le occhiaie scure scavavano il suo volto come tagli profondi. I capelli, prima lucidi e composti, ora erano opachi, disfatti.
Più magra, più vecchia, più consumata.
Una versione spenta della donna che ricordava.
“Benvenuto,” mormorò con voce roca, carica di un sarcasmo stanco.
Un’allusione al fatto che fosse entrato senza invito.
Come se gliene importasse davvero.
“Ciao,” rispose Venti, gli occhi puntati su di lei, gelidi.
Sembrava osservare un morto che si ostinava a respirare.
“Ti trovo bene,” aggiunse poi, e la frase, pur priva d’ironia, suonò come una lama sottile.
Perché Rhinedottir aveva un aspetto terribile.
Lei rise, un suono secco, spezzato.
Amaro.
“Tagliamo corto,” disse infine, guardandolo negli occhi. “Cosa vuoi?”
Non serviva fingere.
Non erano amici.
Non lo erano mai stati.
Tra loro c’erano troppi cadaveri, troppe colpe, troppi nomi sussurrati con rancore: Durin, il caos, la corruzione.
“Un piccolo aiuto,” disse Venti, abbozzando un sorriso innocente.
Un sorriso che non ingannava nessuno. Né lei. Né lui.
Rhinedottir lo fissò, immobile sul divano sformato, lo sguardo vuoto come un pozzo prosciugato. Ma in fondo a quegli occhi c’era ancora fuoco. Fuoco e rabbia.
“Tu hai lo sguardo di una persona pericolosa,” mormorò.
Venti si portò una mano al petto, teatrale. “Mi ferisci,” disse con voce falsa e leggera.
Ma dentro, qualcosa si incrinò davvero.
Non era la prima volta, negli ultimi mesi, che sentiva frasi come quella.
E ogni volta si sentiva meno lui stesso.
Alzò le mani, come a mostrarsi disarmato. “Voglio solo dare una mano.”
Lei non lo credeva. Ma non lo fermò.
“C’è un modo per riportare in vita una persona… un immortale?”
La sua voce non tremava. Ma il gelo in quelle parole fece vibrare l’aria.
Silenzio.
Poi, Rhinedottir rispose, senza la minima esitazione:
“Certo.”
Come se gli avesse chiesto dell’acqua. Come se riportare in vita un immortale fosse un’equazione qualunque.
Perché per lei, lo era.
La moralità, se mai l’aveva conosciuta, l’aveva seppellita sotto anni di esperimenti e abomini. Ora era rimasta solo la fame. La sete di conoscenza che divorava ogni cosa.
“Senza far collassare il nostro universo,” aggiunse Venti, e lì lei fece una smorfia. Quasi un sorriso.
“Beh… in quel caso, potrebbe essere un po’ più complicato. Hai almeno il corpo? Un frammento dell’anima?”
Ancora silenzio.
“No. Il corpo non esiste più… e l’anima è custodita da Ranova. Non vuole cedermela. E io non posso accedere al suo regno.”
Rhinedottir si sporse appena in avanti. Un lieve tremore la attraversò.
“La situazione si fa ancora più complessa, allora.”
“Ma tu puoi accedervi, no?” insistette Venti. “Sei l’emblema della vita.”
“La vita,” ribatté lei, con una voce sottile e graffiata, “è creare. Non rianimare ciò che è già nato e morto. Ma… potrei forzare un po’ i limiti. Anche se… non proprio in modo naturale.”
Un’espressione di fatica le attraversò il volto, e il suo corpo si contorse leggermente.
Venature verdi iniziarono a brillare sotto la pelle.
Venti la osservò accasciarsi su se stessa.
“Certo che… mangiare il cuore di una divinità Primordiale morta non è stata una delle tue idee più brillanti.”
Lei lo fulminò con lo sguardo, i denti serrati dal dolore.
“Stavo solo facendo un’osservazione. Hai un aspetto di merda.” Affermò Venti.
“Grazie.”
“Prego.”
Il silenzio si fece pesante. Carico di tutto ciò che non veniva detto.
“Stai morendo,” disse infine Venti, con una calma dolorosa.
“Sei venuto qui per fare osservazioni stupide o…?”
“No. Sono venuto ad aiutarti,” rispose. “Sei in grado di accedere al Regno di Ranova?”
Rhinedottir fece una risata strozzata. Una specie di rantolo amaro.
“Ovviamente no. Sono troppo debole. Faccio fatica perfino a stare in piedi.”
Venti rimase in silenzio. I suoi occhi azzurri si persero nel vuoto per un momento, come se stesse ascoltando qualcosa che nessun altro poteva udire. Poi parlò, la voce bassa, decisa.
“L’energia che hai assorbito dal cuore di Naberius... ti sta consumando.”
Fece una pausa, osservandola attentamente.
“Il tuo corpo non può contenerla. Ti sta distruggendo, lentamente. Ma io… io posso aiutarti.”
Rhinedottir sollevò lo sguardo, pallido e diffidente. “E come?”
“Io credo di poter assorbirla. Sento che vuole uscire da te… la percepisco, vibra nell’aria. È energia Primordiale. E io sono stato creato da quella stessa forza. Lei mi riconoscerà. Il mio corpo può ospitarla… senza esserne distrutto.
Tu sopravviverai. E io… io potrò riportare in vita Xiao.”
Il silenzio cadde per un istante. Poi Rhinedottir rise, amara.
“Non mi sembri molto lucido, in questo momento. Questo è un potere immenso, pericoloso.
Ne possiedi già un frammento… e ora ne vuoi di più?”
Strinse i denti. “Non so cosa potresti diventare.”
Venti scrollò le spalle, un sorriso storto sulle labbra.
“Da quando ti poni queste domande? Tu, che hai portato avanti i tuoi esperimenti senza curarti del dolore… delle conseguenze… del mondo intero.
Ora tu ti preoccupi di cosa io potrei diventare?
Credi davvero di poterti ergere a giudice?”
Lei non si difese. Né si giustificò.
“No,” rispose semplicemente. “Non ne sono degna. E non ho mai cercato redenzione.
Ho solo cercato… controllo.
Un potere che potessi dominare.
Ma questo…
Questo mi sta distruggendo.”
“Esatto,” ribatté Venti, con una scintilla negli occhi. “Perché non ti appartiene.
Ma io sono compatibile.
È un accordo vantaggioso per entrambi.
Io sento quell’energia… la sento spingere, cercare… me.
È come se mi riconoscesse.
Lascia che accada. Lascia che venga a me.”
Rhinedottir lo guardò, per lungo tempo.
Come se cercasse di leggere la verità in fondo al suo sguardo.
Come se, per una volta, volesse davvero scegliere con lucidità.
“Sei sicuro che… questo mi salverà dalla morte?”
“Ipotizzo di sì.”
Un sorriso ironico gli sfiorò le labbra.
“È questa energia che ti sta uccidendo. Se la separiamo da te… potresti avere una possibilità.”
Ancora silenzio.
Poi, Rhinedottir chiuse gli occhi.
Quando li riaprì, sembravano più opachi, più stanchi… ma decisi.
“Va bene,” disse. “Facciamolo.”
Venti sorrise.
Non un sorriso felice. Non uno di quelli che accompagnavano le sue canzoni o le sue fughe tra le vigne di Mondstadt.
Era un sorriso teso, fatto solo di pura determinazione. E desiderio.
“Non l’ho mai fatto prima…” ammise, la voce bassa. “Solo… prova a darmi la mano.
Lascia andare l’energia che hai dentro.
Io proverò ad accoglierla.”
Rhinedottir esitò. Ma non aveva alternative.
Sollevò lo sguardo verso quella mano tesa, sottile e apparentemente innocua. Poi la afferrò.
Chiuse gli occhi.
E si lasciò andare.
Successe tutto in un istante.
L’energia scaturì da lei come un fiume in piena, afferrando Venti con violenza, penetrando nelle sue ossa, nelle sue vene, nel suo stesso respiro.
Non era dolore.
Era vita. Era potere.
Era divino.
Venti si sentiva vivo come non mai.
Carico. Ubriaco. Come se il mondo si stesse espandendo dentro di lui.
Rhinedottir invece cominciava a crollare.
La pelle si fece livida, poi grigia.
Il respiro diventava più corto. Il corpo tremava. Si sgretolava.
“V-Venti…” sussurrò, ansimando. “Fermati… io non mi sento bene…”
Ma lui non l’ascoltava.
Non poteva ascoltarla.
La corrente era troppo forte, la voce troppo lontana.
La sua mente era inondata.
Una marea primordiale, più vasta di tutto ciò che era mai stato.
“Ti prego…”
Niente.
“Venti…”
Poi il silenzio.
L’energia cessò di fluire.
E il corpo senza vita di Rhinedottir, ormai vuoto, cadde sul pavimento con un suono secco. Un tonfo sordo che rimbalzò nelle pareti come un’eco oscura.
Venti rimase lì.
Gli occhi chiusi. Il petto che si sollevava e si abbassava in un respiro profondo.
Si sentiva… vivo.
Si sentiva… potente.
Ci vollero alcuni minuti prima che Venti si rendesse conto del cadavere accasciato sotto di lui.
Rimase pietrificato.
Immobile.
Il respiro bloccato a metà petto.
Quando era successo?
Come poteva non essersene accorto?
Aveva appena ucciso Rhinedottir.
Un'ondata di gelo gli salì lungo la schiena. Per un istante sentì la nausea salire, il rimorso stringergli lo stomaco come un pugno.
Un mostro.
Era diventato un mostro.
Ma poi...
Sarebbe morta comunque.
Sì, stava già morendo. Il cuore Primordiale la stava consumando, e nessuno avrebbe potuto fermare quel processo.
Se non l'avesse fatto lui, sarebbe finita ugualmente.
Solo con più dolore.
Più agonia.
Lui... l'aveva solo liberata.
Sì. Liberata.
È stato meglio così.
Decise di pensarla così. Doveva pensarla così.
Dopotutto, non era completamente falso. Rhinedottir si era cercata quella fine.
Aveva giocato con forze che nemmeno lei riusciva a contenere.
Si era scavata la fossa da sola.
Non era colpa sua.
Non era colpa sua.
Eppure, nel profondo... qualcosa strideva.
Un pensiero scomodo. Una verità silenziosa, che cercava di farsi strada attraverso la nebbia delle giustificazioni:
Il vecchio Venti... una cosa del genere non l’avrebbe mai fatta.
---
Ronova corse non appena sentì lo schianto e trovò Istaroth accasciata, una mano premuta contro la tempia.
«Che diavolo è successo?» chiese la Signora della Morte, anche se nel profondo già sapeva.
Suo nipote.
Chi altri?
«Venti se n’è andato. Ho provato a farlo ragionare, ma come puoi vedere… non è finita bene.»
Istaroth si rimise in piedi, lentamente, con un'espressione tesa e stanca.
Ronova sospirò.
Quel ragazzo…
«Dobbiamo trovarlo, prima che faccia qualche cazzata.»
La sua voce era secca, ma il tono lasciava trasparire una preoccupazione sincera.
Istaroth annuì, ma sembrava più cupa del solito.
«Che c’è?» domandò Ronova, questa volta con voce più morbida.
Nonostante i contrasti tra loro, le voleva bene. Era pur sempre sua sorella.
Istaroth abbassò lo sguardo.
«L’ho deluso. Se fossi stata una madre più presente… forse tutto questo non sarebbe mai successo. Forse non saremmo arrivati a questo punto.»
Ronova non poté darle torto.
Istaroth si era sempre tenuta distante. Aveva lasciato Venti solo, per secoli, nelle mani dei Principi Celesti. E adesso si ritrovavano a raccogliere i pezzi.
Quel povero ragazzo… probabilmente era un mosaico di traumi mai guariti, e quest’ultimo evento era stata solo la goccia.
Non che loro non avessero i propri.
Era una maledizione di famiglia, sembrava.
Si cresce, si sopravvive, si impara ad essere apatici alla crudeltà che ti circonda.
La si attraversa, non la si subisce.
Ma Venti…
Venti era diverso. Era sempre stato troppo sensibile.
Troppo legato alle persone. Troppo umano per il potere che portava dentro.
E un Primordiale troppo sensibile... era un Primordiale instabile.
Soffriva. E la sofferenza lo marchiava. Lo deformava.
«Forse sì,» disse infine Ronova, «ma non è solo colpa tua. Venti ha vissuto… tanto. E ha sentito tutto, tutto quanto. Si attacca. Ama. Perde. Ama di nuovo. È questo che l’ha portato a questo punto. Non sei sola, Istaroth.»
Istaroth fissò il vuoto sotto di lei, poi scosse la testa.
«Andiamo a cercarlo.»
La sua voce era quasi un sussurro, e i suoi passi erano lenti. Avviliti.
Ronova la seguì in silenzio, l’eco dei loro errori riempiendo lo spazio tra di loro.
---
Alice era con Klee quando ricevette la notizia.
Dopo la morte di Venti, Andrius e Xiao…
Dopo la caduta di Celestia…
Qualcosa in lei si spezzò.
Non che non lo sapesse già — era un fatto ovvio, scontato perfino — ma quella verità le si inchiodò nel petto con brutalità: poteva perdere chiunque, in qualsiasi momento. Avrebbe potuto perdere anche Klee quel giorno, se Venti non avesse agito come ha fatto.
Le mancava.
Lui.
E anche quel burbero di Andrius.
Così Alice decise di mettere in pausa tutto: la magia, le ricerche, le avventure.
Per una volta, voleva solo essere madre.
Restare al fianco di Klee, vivere quel lutto con lei.
Albedo si univa spesso a loro. E i tre si erano stabiliti a Sumeru: un luogo ricco di vita, accogliente, pieno di colori e scoperte. Klee amava la natura, correva tra i fiori con le sue bombe sempre pronte — e Alice doveva costantemente assicurarsi che nessuna esplosione finisse su qualche albero sacro. Albedo, dal canto suo, trovava stimoli ovunque. Sembrava quasi… in pace.
Klee stava meglio.
Sorrideva di nuovo.
Gli incubi erano più rari.
E questo bastava.
Fino al giorno in cui qualcuno bussò alla porta.
Alice aprì, e si ritrovò davanti un volto che non vedeva da molto tempo.
«Oh, ma che sorpresa,» disse, sinceramente colpita.
Zhongli.
Non aveva mai avuto un grande legame con gli altri Arconti. Solo con Venti aveva avuto un rapporto vero. Ma Zhongli… Venti ne parlava spesso, e con affetto. E poi, c’era Xiao. Anche lui veniva da Liyue. Morax aveva un forte legame anche con lui.
Zhongli aveva lo sguardo segnato.
Soffriva.
E Alice lo capì subito, anche se non lo disse.
«Come stai?» chiese, con una voce più gentile del solito.
«Entra pure.»
Il drago fece un piccolo inchino di rispetto ed entrò.
Klee, dall’altra stanza, sbucò curiosa come sempre.
«Ciaoo!» salutò Zhongli, agitando una mano.
L’Arconte le sorrise.
«Ciao, piccola.»
Poi si rivolse ad Alice.
«Possiamo parlare… in privato?»
Klee si fece avanti. «Anche Klee vuole sapere!»
Alice le posò una mano sulla testa.
«Tesoro, sono cose da grandi. Facciamo subito, va bene?»
«Ma io sono grande!» protestò Klee, gonfiando le guance.
Alice rise piano.
«Certo che lo sei. Ma non abbastanza per questa cosa. Se fai la brava, dopo costruiamo insieme qualche bombetta nuova, che ne dici?»
Klee esitò, ma alla fine annuì con un piccolo broncio, tornando nella sua stanza.
Quando fu sola con Zhongli, Alice tornò seria.
Lo guardò negli occhi.
«Dimmi tutto.»
Zhongli fece un passo avanti, lo sguardo solenne.
«Si tratta di Venti. C’è ancora la possibilità che sia vivo. E secondo ciò che riferisce la sorella di Aether… è una possibilità concreta.»
Alice lo fissò, sorpresa. Poi, lentamente, il suo sguardo si strinse, intriso di diffidenza.
«La sorella di Aether?» chiese. «Lumine non è mai stata esattamente... dalla nostra parte. Cosa ti fa credere che stia dicendo la verità stavolta?»
Zhongli abbassò il mento, come se riflettesse ancora sulle stesse domande.
«Me lo sono chiesto anch’io. Ma Aether è convinto della sua sincerità. Dice di conoscerla da troppo tempo per non accorgersi quando mente. Nonostante tutto ciò che ha fatto... sa leggere in lei.»
Alice rimase in silenzio, osservandolo.
«Lumine ha affermato di averlo visto con i suoi occhi,» continuò Zhongli. «Venti è sopravvissuto a quella guerra. Non solo... è stato lui a far cadere Celestia.»
Alice spalancò gli occhi.
«Scusa?» mormorò, incredula. «Questa è... un’affermazione pesante.»
«Lo so,» disse Zhongli, con calma. «Ma considerando chi è davvero Venti… non è così assurdo come potrebbe sembrare.»
Alice lo guardò di sottecchi, incrociando le braccia.
«A cosa ti riferisci esattamente?»
«Hai mai sentito parlare dei Primordiali?» chiese lui, con tono grave.
Lei sbuffò e si lasciò sfuggire un mezzo sorriso ironico. «Oh certo. Ci ho preso il tè giusto la settimana scorsa, con uno di loro.»
Zhongli la fissò, impassibile.
«Scusa,» si affrettò a dire Alice, alzando le mani in segno di resa. «Forza dell’abitudine. Con Venti ci prendevamo in giro a vicenda, era il nostro modo di... sopravvivere al peso di tutto. Ma ti risponderò sul serio: sì, li ho sentiti nominare. Ma non ci ho mai avuto direttamente a che fare.»
Zhongli annuì.
«In realtà, sì. Anche se non ne eri a conoscenza, ne sei stata più vicina di quanto immagini. Venti… è il figlio di Istaroth, la divinità del tempo. Una delle Quattro Ombre di un Primordiale.»
Il silenzio che seguì fu denso.
Alice rimase immobile, le labbra appena socchiuse. Ci mise qualche secondo a collegare tutto, a credere a ciò che stava sentendo. Poi si lasciò cadere su una sedia vicina.
«Tu stai dicendo… che Venti era figlio del Tempo stesso?» sussurrò.
Zhongli la guardò con gli occhi colmi di gravità.
«Sì. E ora, forse, quel sangue… è ciò che gli ha permesso di sopravvivere.»
Alice lo fissò in silenzio, sbattendo le palpebre un paio di volte, come se avesse bisogno di qualche secondo per registrare le parole.
«Okay... bene. Sì. E con questa informazione, cosa pensi di farci esattamente?»
Zhongli mantenne lo sguardo serio.
«Credo che Venti sia con loro, in questo momento. Lumine dice di averlo visto combattere al fianco di altre due entità alate come lui. Dopo la battaglia... se n’è andato con loro. Dato l’aspetto che descrive – le ali, i simboli, l’energia – sono quasi certo che si tratti di divinità primordiali.»
Fece una pausa, poi aggiunse:
«Hai idea di un luogo, un dominio o una dimensione dove potrebbero nascondersi? Ricordo di aver letto tempo fa qualcosa su un loro reame, ma non ho mai scoperto come accedervi.»
Alice rimase in silenzio per qualche istante, lo sguardo perso nei propri pensieri. Poi si mosse appena e parlò, pensosa:
«So a cosa ti riferisci. Secoli fa lessi un testo molto antico che parlava dell’origine dei Primordiali... e del loro dominio. Un luogo fuori dal tempo, fuori da Teyvat. Ma non ricordo i dettagli. Dovrei recuperare quel libro... se non l’ho buttato.»
«Posso aiutarti a cercarlo,» si offrì Zhongli subito.
Alice lo guardò con un sorriso stanco.
«Sarebbe molto apprezzato. Ho più di cinquemila volumi… e molti li ho anche bruciati per sbaglio, o regalati, o... lasciati parlare troppo con i quadri.»
Zhongli sbiancò leggermente. «Cinquemila?»
Alice rise di gusto, poi gli afferrò il braccio. «Vieni con me.»
In un battito di ciglia, sparirono.
Quando riapparvero, Zhongli fu accolto da uno spettacolo surreale. La libreria personale di Alice era... immensa non rendeva nemmeno l’idea.
Alti scaffali si estendevano per venti piani, colmi di libri dall’aspetto più disparato. Alcuni volumi fluttuavano a mezz’aria, altri sfogliavano se stessi. C’erano scale mobili che si spostavano da sole, quadri parlanti che discutevano tra loro, globi astrali che ruotavano sospesi nel vuoto, e un profumo di carta antica che sembrava attraversare ogni epoca.
Alice allargò le braccia, con orgoglio.
«Benvenuto nella mia dimora letteraria.»
Zhongli non rispose. Rimase in silenzio, gli occhi fissi sul caos elegante che aveva davanti. Per la prima volta dopo secoli… sembrava davvero impressionato.
---
Dopo sei ore di ricerche estenuanti, tra scaffali che si muovevano da soli, pile di libri crollati e scale che cambiavano direzione senza preavviso, finalmente trovarono quello che cercavano. Il testo in questione era racchiuso in un vecchio manuale rilegato in pelle, riposto sul settimo piano, nascosto dietro una collezione di trattati su alchimia interdimensionale.
«Eccolo!» esclamò Alice, sollevandolo come se fosse un trofeo. «Sapevo che non l’avevo buttato!»
Sorprendentemente, i quadri parlanti si erano rivelati fondamentali nella ricerca. Alcuni avevano persino dato indicazioni precise, suggerendo piani, scaffali e titoli.
Zhongli, però, non riusciva ancora a capacitarsi di ciò che stava vivendo.
«Perdonami se insisto, ma…» si voltò verso uno dei quadri, «perché… un quadro dovrebbe parlare? E come ci riesci?»
Il dipinto raffigurava un uomo anziano con un turbante elaborato, chiaramente di origine sumeruana. Lo guardò con un'espressione altezzosa.
«Perché non dovrei? Solo perché sono fatto di tela? Che razzismo silenzioso è mai questo?» replicò il quadro con tono indignato.
Zhongli rimase interdetto, incapace di rispondere.
Un altro quadro, quello di una nobildonna di Fontaine con un ventaglio dipinto a mezz’aria, intervenne con voce teatrale: «Ci annoiamo da morire, sai. Passare secoli appesi a un muro, fermi nello stesso punto... è il peggior incantesimo di immobilità sociale che si possa immaginare. Per fortuna i libri sono ottimi compagni, e un pettegolezzo ogni tanto non guasta.»
«Esatto!» aggiunse un terzo dipinto, un ragazzino con una mela a mezz’aria. «Il libro sui Primordiali? Oh, lo chiamavamo “Il mattone mistico”! Ci siamo letti ogni parola. Almeno tre volte. L’ultima volta ci siamo divisi in gruppi e ne abbiamo discusso. Tipo club del libro.»
Zhongli rimase in silenzio. Non perché non volesse rispondere, ma perché non sapeva letteralmente come. Il concetto di un quadro che si sentiva annoiato, leggeva e partecipava a circoli letterari era semplicemente... troppo. E non era un uomo facile da sorprendere.
Alice lo notò e rise piano. «Ti ci abituerai. O forse no. A me ci sono voluti tre secoli.»
Zhongli si limitò a fissare di nuovo il quadro dell’uomo di Sumeru, che gli fece l’occhiolino. Lentamente si voltò verso Alice.
«Sei sicura che questo posto sia... stabile?»
«No. Ma è divertente, no?» rispose lei con un sorrisetto.
Poi indicò il libro tra le mani. «Ora vediamo cosa ci racconta sul dominio dei Primordiali...»
---
Alice lesse il passaggio più volte, con le sopracciglia aggrottate e un’espressione sempre più concentrata. Ogni tanto sfogliava qualche pagina precedente, tornava indietro, confrontava simboli e parole, finché finalmente parlò, sospirando.
«È complicato. Non che mi aspettassi diversamente, ma… questo supera le mie aspettative.»
Zhongli attese in silenzio, paziente.
«Il libro fornisce delle coordinate precise per raggiungere il dominio dei Primordiali. Un dettaglio raro, prezioso. Ma il problema non è arrivarci...» fece una pausa, puntando il dito su una pagina. «È entrare. Il dominio è circondato da una barriera temporale. Chiunque sia legato al tempo—cioè tutti noi—verrebbe consumato. Dissolto.»
Zhongli incrociò le braccia, la fronte tesa. «In parole povere, una barriera mortale per ogni essere che non sia un Primordiale.»
«Esattamente. I Primordiali non sono influenzati dal tempo. Per loro, la barriera è come aria. Per noi… è una condanna certa.»
Seguì un momento di silenzio denso, poi Alice continuò, sfiorando con le dita la pergamena della pagina.
«Tuttavia, c’è una possibilità. Antica, rischiosa e incredibilmente difficile da mettere in atto: un rituale per scollegare un essere vivente dal flusso temporale. Temporaneamente. Questo potrebbe consentirci di attraversare la barriera senza venire disintegrati.»
Zhongli annuì lentamente. «Suppongo che richieda una quantità enorme di energia magica.»
«E una precisione estrema. Se sbagli anche solo di poco… ti condanni da solo.»
«E se riuscissimo a entrare, il problema successivo sarebbero i Primordiali all’interno del dominio. Non credo che accoglierebbero degli intrusi con benevolenza.»
Alice chiuse il libro con un tonfo sordo, pensierosa. «No, probabilmente ci distruggerebbero al primo battito di ciglia. Ma ho alcune pozioni di invisibilità. Non sono perfette, ma potrebbero funzionare per mascherare la nostra presenza.»
«Potrebbero comunque percepirci. A un livello sensoriale superiore, giusto?»
«Esatto. Magia, intenzione, battito del cuore. Sono esseri antichi, nati prima delle leggi stesse del mondo. Nasconderci da loro sarebbe come cercare di nascondersi dal vento.»
Zhongli si prese un attimo per riflettere, poi sollevò lo sguardo. «Un tuffo nel buio.»
«Letteralmente.» rispose Alice, guardandolo negli occhi.
Un lungo momento li tenne in silenzio, poi Zhongli parlò con fermezza: «Sono disposto a correre il rischio.»
Alice sorrise, appena. «Allora siamo in due.»
Chapter 9: Nella tana del lupo
Summary:
Sono tornata! Mi scuso per il lungo tempo di attesa ma sono stata parecchio impegnata in questi giorni. Spero che il capitolo vi piaccia!
Proverò ad aggiornare prima il prossimo capitolo. Buona lettura ❣️
Chapter Text
Aether, Paimon, Zhongli, Alice, Kaeya, Diluc e Jean erano riuniti in una sola stanza: l’ufficio personale di Zhongli. Le tende erano tirate, la porta chiusa a chiave, e l’agenzia funebre era silenziosa—Hu Tao era uscita per delle commissioni, garantendo loro un raro momento di privacy assoluta.
Zhongli si alzò lentamente dalla sua sedia, le mani giunte dietro la schiena. «Io e Alice ci siamo confrontati. Forse abbiamo trovato un modo per accedere al dominio dei Primordiali.» La sua voce era bassa, grave, ma non mancava di una flebile nota di speranza. «Ma è molto rischioso.»
La stanza cadde in un silenzio teso. Nessuno parlava, eppure qualcosa si era incrinato nel buio che li circondava da settimane: un piccolo spiraglio. Per la prima volta dopo tanto tempo, c’era un’ipotesi concreta. Una possibilità.
Jean fu la prima a parlare, con voce ferma. «Cosa dobbiamo fare?»
Alice si fece avanti, stringendo un tomo consunto fra le mani. «Si tratta di un rituale. Molto più complesso di quello che ho usato per aprire il portale verso la dimensione abissale. Ma potrebbe funzionare.»
«Il problema è che il dominio è circondato da una barriera temporale,» continuò. «Chiunque sia legato al tempo—quindi, tutti noi—verrebbe disintegrato all’istante appena la oltrepassa. Per questo ho recuperato un incantesimo che potrebbe scollegarci temporaneamente dal flusso temporale. Un’interruzione artificiale, in grado di farci sopravvivere al passaggio.»
Kaeya si accigliò. «Temporaneamente?»
Alice annuì. «Sì. Avremmo un tempo limitato all’interno. Se non riuscissimo a uscire prima che l’incantesimo svanisca… rimarremmo intrappolati lì. E rifarlo... non sarebbe possibile. Non senza conseguenze devastanti.»
«Perché?» chiese Diluc, fissandola con sguardo penetrante.
«Perché aprire un portale del genere assorbe una quantità enorme di energia. Farlo una seconda volta... consumerebbe ogni risorsa che ho. E non so se sopravviverei.»
Alice si voltò poi verso Aether. I suoi occhi si posarono su di lui con intensità.
«Per riuscirci, avrò bisogno del tuo aiuto. Tu, Aether, dovrai diventare il mio conduttore energetico. Permettere alla tua forza di fluire attraverso di me durante il rituale.»
Aether si irrigidì appena. «E come dovrei farlo?»
Alice sorrise debolmente. «Semplicemente... lasciando che la tua energia attraversi il mio corpo. Tenendomi la mano.»
Paimon sgranò gli occhi. «Tutto qui?»
Alice rise sottovoce. «No, non proprio. Dovrai mantenere la connessione anche quando la tua mente sarà scossa dal rituale. Non sarà piacevole. Ma è possibile.»
Aether guardò la sua mano, poi alzò lo sguardo verso di lei. Il silenzio tornò nella stanza, ma non era più teso. Era l’attesa prima di un passo nel vuoto.
«Lo farò.»
Zhongli annuì con rispetto. Jean strinse le labbra in una linea sottile. Diluc distolse lo sguardo, le mani serrate dietro la schiena. E Kaeya… sorrise, appena, ma senza alcuna ironia.
Una decisione era stata presa.
Alice sorrise con un cenno lieve, ma il suo sguardo si fece subito più serio mentre si voltava verso Jean, Kaeya e Diluc.
«Non siete obbligati a venire,» disse, la voce ferma. «Là fuori ci aspettano esseri ben oltre la portata degli Arconti. Entrare nel loro dominio, per voi comuni mortali, equivale a cercare la morte. Se ci scoprono, non ci sarà scampo.»
Kaeya incrociò le braccia, il solito sorriso sarcastico affiorò sulle labbra, ma i suoi occhi erano lucidi e lucidi di determinazione.
«Sarebbe un suicidio anche per voi, no?» ribatté. «La differenza è solo nel livello d'incoscienza, immagino. Ma tanto vale essere incoscienti insieme. Non mi tiro indietro.»
«Nemmeno io,» disse subito Diluc, la voce bassa ma carica di convinzione. «Venti non è solo un Arconte. È un amico. E se c'è anche solo una possibilità che sia vivo… allora non resterò fermo a guardare. Scommetterò la mia vita, se serve, per riportarlo a casa.»
Jean fece un passo avanti, composta come sempre. Ma nella sua voce c’era una passione che raramente lasciava emergere.
«Mondstadt è allo sbando. Senza Venti, ha perso la sua guida, il suo spirito. Se lui è ancora là fuori, allora dobbiamo trovarlo. Per lui… e per ciò che rappresenta. Contatemi.»
Alice li osservò uno ad uno, scrutando i loro volti. Non c’erano esitazioni. Solo la certezza di chi ha già scelto il proprio cammino.
«Allora saremo in sette,» disse infine. «E che gli dèi abbiano pietà di noi. Perché i Primordiali… non ne avranno.»
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Ci vollero ben tre giorni prima che tutto fosse pronto. Il rituale era complesso, delicato, e richiedeva una precisione quasi ossessiva. Alice aveva fatto il possibile per conservare ogni frammento di energia rimasta, attingendo a fonti dimenticate e forzando i suoi stessi limiti. Anche con la presenza di Aether, la situazione era tutt’altro che sicura.
Probabilmente sarebbe rimasta esausta per settimane—sempre che sopravvivesse a questa missione suicida.
Pensava spesso a Klee. Naturalmente, non le aveva detto nulla. Come poteva? Ma aveva parlato con Albedo. Lui aveva compreso tutto, senza bisogno di molte parole. Per quanto desiderasse partecipare, sapeva che qualcuno doveva restare. Qualcuno doveva essere lì per Klee, nel caso il peggio accadesse.
Quando Alice lo salutò, Albedo lo fece come se fosse l’ultima volta. E sinceramente… lei lo credeva. Era vecchia, sì. Ma non temeva la morte. Non più.
Passò l’intera giornata con sua figlia. Ogni risata, ogni abbraccio, ogni storia raccontata con la solita teatralità era un addio silenzioso, nascosto dietro un sorriso grande e rumoroso. Alice era una strega, una delle più potenti che Teyvat avesse mai visto. E con quel potere venivano anche dei doveri. Trovare Venti era uno di questi.
Non solo perché era un caro amico, ma perché sapeva troppo. Troppe verità sepolte sotto le rovine di Celestia, troppi segreti legati al passato e forse… al futuro. Alice sentiva che quella che stavano vivendo non era pace. Era solo il respiro prima della tempesta.
E da qualche parte, nel profondo del cuore, sapeva che Venti conosceva le risposte.
E oltre ogni altra cosa… gli voleva bene. Davvero.
«Tutto è pronto. Se qualcuno ha dei ripensamenti… ora è il momento giusto per tornare indietro,» dichiarò Alice con voce ferma. Il silenzio calò come un velo sulla radura. Gli occhi di tutti erano puntati su di lei, tesi, incerti, colmi di un’ansia palpabile.
La morte era un concetto spaventoso. E per dei mortali lo era ancora di più. Non avevano vissuto secoli. Non avevano avuto tempo di abituarsi al peso dell’eternità.
Ma nessuno parlò.
Nessuno fece un passo indietro.
Erano pronti.
Il rituale si sarebbe svolto lontano dagli occhi di Liyue, ai margini della regione, dove nessuno potesse vederli, o peggio… sentirli. Il cielo era limpido, ma l’aria pareva trattenere il respiro.
«Fa quasi ridere, no?» disse Kaeya con un sorriso tirato, cercando di spezzare la tensione. «La squadra di soccorso Venti, di nuovo riunita. Forse dovremmo renderla ufficiale.»
Jean accennò una risata breve e silenziosa. Diluc, invece, non disse nulla: lo sguardo fisso, il corpo rigido come una lama.
«Paimon non è proprio convinta…» esclamò la piccola creatura fluttuante, «ma per quel bardo stonato lo farà!»
Si disposero in cerchio. Alice prese posizione al centro.
Zhongli fece un passo avanti. «Posso dare una mano. Presterò parte della mia energia insieme ad Aether.»
«Sicuro di farcela, nonno?» scherzò Alice con un lampo negli occhi.
Zhongli sbuffò con dignità. «Non sottovalutare Rex Lapis.»
«Mai oserei,» ribatté lei, sorridendo.
Il rituale ebbe inizio.
Alice cominciò a recitare le prime parole in un linguaggio antico e dimenticato. Aether le teneva la mano da un lato, Zhongli dall’altro. Il cerchio intorno a loro si accese, le rune tracciate con una precisione millimetrica cominciarono a brillare d’argento.
Lentamente, la luce aumentò d’intensità. Le rune si sollevarono da terra, ruotando intorno al gruppo in una danza silenziosa. Prima lente, poi sempre più veloci, con bagliori pulsanti e voci lontane che sembravano sussurrare nei venti.
Aether serrò i denti, il sudore sulla fronte. Zhongli faticava a mantenere il flusso, ma resisteva. Alice, al centro, non tremava: la sua voce cresceva, salda, solenne.
Poi arrivò il secondo incantesimo.
Il più rischioso. Quello che li avrebbe strappati dal tempo.
«Preparati… questo farà male,» sussurrò Alice. Nessuno parlò. Ma tutti si concentrarono, stringendosi a quella determinazione che li aveva portati lì.
Alice pronunciò la formula.
Un’esplosione silenziosa. Dalle carni dei presenti si staccarono violente particelle dorate, strappate via con brutalità come lembi di anima. Un dolore lancinante, viscerale, come se venissero scollegati dal mondo, dalla loro epoca, dal loro stesso respiro.
Alice vacillò. Aether s’irrigidì, gli occhi stretti per la fatica. Zhongli era ansimante, il volto contratto, ma ancora in piedi.
«Resistete!» gridò Alice, la voce incrinata dallo sforzo.
Le rune argentate diventarono incandescenti.
E poi—sparirono.
Silenzio.
Il gruppo era scomparso.
Portati via oltre il tempo.
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Ronova e Istaroth erano state fuori per un giorno intero.
Avevano cercato Venti in ogni angolo possibile, ma invano.
Non c’era traccia di lui.
Un assenza inquietante, inspiegabile. Come se fosse stato inghiottito dal tempo stesso.
E per due entità come loro—antiche, connesse alla stessa fonte, allo stesso sangue—quella scomparsa era semplicemente... impossibile.
Eppure era accaduta.
Istaroth camminava in silenzio, i suoi pensieri come lame affilate. “Com’è riuscito a farlo? Come ha spezzato il filo che ci unisce?”
Venti era potente.
Ma era anche giovane.
Eppure… era riuscito a piegare il tempo, a cancellare le sue tracce persino ai loro occhi.
Era bravo. Dannatamente bravo.
E proprio questo lo rendeva pericoloso.
Una minaccia instabile.
Istaroth non lo avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma provava qualcosa che le era estraneo da eoni: paura.
Ronova camminava accanto a lei, silenziosa come l’ombra di una tempesta. Anche lei aveva notato l’assenza di qualsiasi eco energetico lasciata da Venti.
E così, sconfitte ma in guardia, erano tornate nel dominio. Era troppo rischioso restare fuori: i Principi Celesti li cercavano e ogni passo nel mondo esterno poteva tradursi in morte.
Avrebbero trovato un altro modo per localizzare Venti.
Uno più sottile. Più antico.
Ma poi…
Lo sentirono.
Un fremito nell’aria. Un’onda d’urto invisibile.
Qualcosa era entrato nel loro regno.
«L’hai percepito anche tu, vero?» domandò Istaroth, la voce tesa.
«Sì,» rispose Ronova, già all’erta. La sua mano sfiorò l’elsa della spada. «Qualcuno ha forzato l’apertura del portale.»
Uno strappo nella barriera protettiva. Un’incursione.
Un affronto.
«E se fossero i Principi?» chiese Ronova, il volto tirato, ma pronto.
No. Non era Venti—ne erano certe. Lui non avrebbe avuto bisogno di forzare un passaggio.
Chiunque fosse… aveva firmato la sua condanna a morte.
«Preparati a combattere,» ringhiò Ronova, mentre i suoi occhi si accendevano di una luce cremisi. Le sue ali si dispiegarono, nere come la notte, striate di rosso sangue.
Istaroth avanzò al suo fianco, i lunghi capelli bianchi che fluttuavano come seta dorata. I suoi occhi brillavano, due soli impietosi. Le ali si aprirono con uno scatto: bianche come l’alba, ma riflettenti oro.
Chiunque avesse osato violare il loro dominio, avrebbe conosciuto la furia delle due divinità.
E non sarebbe sopravvissuto a raccontarlo.
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Quando i sette riemersero nel dominio, furono accolti da un silenzio opprimente e dalla sensazione che il loro stesso corpo li avesse traditi. Erano riversi a terra, storditi, privi di forze. Alice provò a muovere le gambe: era come trascinare blocchi di pietra legati alle caviglie. Un gemito le sfuggì dalle labbra, strozzato, mentre cercava di sollevare la testa.
Lo sguardo annebbiato le mostrò che anche gli altri erano ridotti allo stesso stato: corpi piegati, respiro affannoso, occhi socchiusi. Una scena che la fece gelare dentro, perché ancora non avevano raggiunto Venti, né trovato una via d’uscita. Peggio: c’erano i Primordiali da evitare.
Come potevano farcela, se non erano nemmeno in grado di reggersi in piedi?
Alice sapeva che il rituale sarebbe stato doloroso. Lo aveva detto, lo aveva previsto. Ma questo? Questa sensazione di vuoto totale, di carne che non rispondeva più, non se l’era immaginata. Era già un miracolo che i tre mortali fossero ancora vivi.
Sarebbero morti così? A terra, senza nemmeno combattere?
La strega serrò gli occhi, tentando di aggrapparsi al ritmo del proprio respiro. Inspirò, espirò. Concentrarsi sulle mani, sui piedi. Ritrovare una parvenza di sensibilità, di movimento. Poi sussurrò, con la voce roca:
«S-siete tutti svegli?»
Non riusciva ancora a sollevarsi, ma le dita delle mani cominciavano a tremare, un segno che la vita non le aveva abbandonate del tutto.
Risposte confuse le giunsero attorno: mezze frasi, lamenti di dolore. Ma erano vivi. Debilitati, sì, ma vivi.
Dopo lunghi minuti di tentativi goffi, riuscirono almeno a mettersi a sedere.
«Credo di non aver mai provato un dolore simile…» Kaeya mugugnò, portandosi una mano alla testa. «È come se stessi tenendo in equilibrio un’intera montagna sul collo.»
«Non fare il drammatico.» replicò Diluc, la voce dura, «Siamo vivi. E dobbiamo muoverci.» Cercò di alzarsi… ma il suo corpo lo tradì subito, afflosciandosi a terra con un tonfo secco.
Kaeya rise piano, il sorriso malizioso nonostante la stanchezza: «Oh, splendida performance, fratellone. Sembravi un pesce appena tirato fuori dall’acqua.»
Jean sospirò, stringendo le labbra. «Ragazzi, non è il momento.» Zhongli al suo fianco decise di ignorare i loro litigi e concentrarsi sull'ambiente circostanze.
L'ambiente era maestoso, una dominio regale, dorato eppure incredibilmente vuoto.
Aether stava per dire qualcosa quando lo sentì: l’aria cambiò. Si fece densa, tagliente, carica di una tensione che non lasciava scampo. Ogni respiro era più difficile, come se un’onda invisibile stesse per travolgerli.
Qualcosa stava arrivando. Qualcosa di enorme.
Il cuore di Aether prese a battergli all’impazzata. Cercò di evocare la sua spada, ma la luce non rispose al suo richiamo. Panico. Teoricamente erano invisibili. Teoricamente nessuno li avrebbe trovati. Forse… forse non li avevano notati, e presto sarebbero andati via. Forse—
Due figure si materializzarono davanti a loro. Occhi che brillavano come stelle impazzite, fissi, ardenti. Ali che riflettevano la luce con una maestosità impossibile da ignorare. Bellezza sublime, sì… ma di quella che terrorizza.
La sola vibrazione del loro potere scosse l’aria attorno, tanto che Aether ebbe l’impressione che il mondo stesso trattenesse il respiro.
Impressionante. Terrificante. Inevitabile.
E la cosa peggiore? Quelle due divinità li fissavano con un chiaro intento omicida.
Alice inspirò bruscamente, il cuore che le batteva in gola. L’incantesimo d’invisibilità era inutile contro di loro: li vedevano, li percepivano, come se la magia non fosse mai esistita. Illudersi di poter ingannare simili entità era stata una follia… e ora non restava che tentare l’unica strada possibile: parlare.
Combattere era impensabile, non in quelle condizioni.
«Come osate invadere il nostro dominio?» ringhiò la figura alla loro sinistra. La sua voce era fredda, ma ruggiva di rabbia. Aveva lunghi capelli bianchi, un abito scuro che ondeggiava come fumo e ali imponenti, nere con venature rosse che parevano sanguinare luce. I suoi occhi cremisi erano come due lame, pronti a trafiggerli.
L’altra divinità, accanto a lei, rimaneva invece in silenzio. I suoi capelli, anch’essi bianchi, incorniciavano un volto delicato, quasi etereo. Le ali erano chiare, candide con riflessi dorati, simili a quelle di Venti… solo infinitamente più grandi e solenni. Non diceva nulla: li osservava, li scrutava con attenzione. Non era minaccia cieca, la sua: era studio, analisi.
«Chi vi ha mandato qui?» continuò la prima — Ronova. La sua voce rimbombava come un tuono nel dominio. «Siete forse emissari dei Principi Celesti?»
La parola stessa fece gelare il sangue a tutti. Se quelle entità li avessero scambiati per agenti di Celestia, non avrebbero avuto scampo.
Ronova socchiuse gli occhi, perplessa. Alcuni di loro somigliavano a semplici mortali, eppure… come potevano esseri così deboli aver forzato la barriera del dominio? «Parlate!» tuonò, e il suo sguardo si accese di crudeltà. «Se lo farete, potrei concedervi una morte rapida… e indolore.»
Il gelo li avvolse. Jean, Kaeya, persino Diluc — che di solito sapeva mantenere il controllo — impallidirono. Immobilizzati e stremati, non riuscivano nemmeno a sollevare le armi. L’idea di essere spazzati via in quell’istante non era più un’ipotesi: era una certezza che incombeva.
Eppure, improvvisamente, qualcosa cambiò. L’altra figura — Istaroth — fece un passo avanti e alzò la mano. Un gesto lento, ma fermo. Ronova, sorpresa, esitò; poi, con evidente riluttanza, fece svanire la propria arma, anche se il suo sguardo restava ostile.
Un respiro di sollievo sfuggì dalle labbra di Alice, seguito da un brivido collettivo degli altri.
«Io vi conosco…» disse Istaroth, la sua voce morbida eppure solenne, quasi intrisa di malinconia. «Voi siete amici di mio figlio… non è così?»
Zhongli sussultò, come se improvvisamente ogni frammento fosse andato al proprio posto. Finalmente capiva chi aveva davanti.
«Mi perdoni per l’ardire,» disse, abbassando appena il capo in segno di rispetto. La sua voce era calma, ma tesa. «Lei è Istaroth, l’Ombra del Tempo… è corretto?»
La donna lo osservò con un’espressione indecifrabile, poi fece un lieve cenno con il capo. «Sì. Io sono Istaroth,» confermò, la sua voce echeggiò come un sussurro che sembrava provenire da più punti del dominio, «e lei…» — il suo sguardo scivolò verso l’altra figura, immobile e minacciosa al suo fianco — «…è mia sorella, Ronova.»
Ronova non distolse lo sguardo. Quegli occhi cremisi brillavano ancora di ostilità, e le sue ali nere e rosse fremettero come in risposta al solo pensiero di un attacco. Ogni suo gesto tradiva la diffidenza, e l’invasione subita era per lei un affronto che difficilmente avrebbe dimenticato.
Alice, stringendo i pugni per tenere a bada il tremito, prese coraggio e parlò: «Ci scusiamo per essere entrati senza permesso… Non avevamo intenzione di mancarvi di rispetto. Stavamo cercando Venti, eravamo molto preoccupati per lui. Non desideravamo in alcun modo offendere voi o la vostra dimora.»
Il volto di Istaroth rimase sereno, ma Ronova scattò in avanti, come un’ombra minacciosa. «Eppure il rispetto lo avete infranto» rispose Ronova fermamente, la sua voce grave come il rintocco di una campana funebre. «Avete osato violare il nostro dominio. Avete osato varcare questa soglia senza invito. Come pensate che dovremmo interpretarlo? Come pensate che dovremmo lasciarvi andare impuniti?» I suoi occhi, già rossi, parvero incendiarsi di nuova collera.
Paimon, con un gemito soffocato, si rifugiò dietro Aether. La pressione della divinità era schiacciante, quasi impossibile da sostenere.
Istaroth allora posò una mano lieve ma ferma sulla spalla della sorella. «Ronova… ti prego. Calmati.» La sua voce aveva un tono gentile ma inamovibile, come se il tempo stesso si fosse fermato a quelle parole. «Sono amici di tuo nipote. E io percepisco che le loro intenzioni non sono malevole. Non sono nemici.»
Ronova si irrigidì, combattuta tra rabbia e rispetto per la parola della sorella. Alla fine, con un sospiro tagliente, si ritrasse di un passo, anche se lo sguardo che rivolse agli intrusi restava gelido, sospettoso.
«Dunque siete qui per Venti…» disse infine, pronunciando quel nome con una strana tristezza e malinconia.
Zhongli, che fino a quel momento aveva mantenuto una calma fragile, chinò appena il capo. «È così,» rispose, la voce più bassa, quasi supplichevole. «All’inizio temevamo fosse morto… ma qualcuno ha testimoniato la sua sopravvivenza. È… è con voi, vero?»
L’attesa lo stava consumando. Dentro di sé, Zhongli sapeva che non avrebbe sopportato un’altra delusione, un altro amico perduto. Il peso di secoli di addii incombeva sul suo cuore. Ora, davanti a quelle due divinità, non poteva fare altro che sperare.
Istaroth lasciò sfuggire un lungo sospiro, un respiro che pareva contenere secoli di malinconia. Quel semplice gesto bastò a spegnere per un istante la scintilla di speranza negli occhi di Zhongli, che sentì il cuore farsi pesante, come se stesse per frantumarsi ancora una volta. Il silenzio che seguì gravava su tutti, fino a quando la voce della dea non ruppe l’attesa.
«Era con noi,» disse infine, con una calma che sembrava quasi un rimprovero. «Ma se n’è andato un’ora fa soltanto. Potrei dire che il vostro tempismo è… disastroso.»
Zhongli sollevò lo sguardo, trattenendo il fiato. Le sue parole lo avevano colpito come una lama, eppure la speranza ardeva ancora sotto le ceneri. «Quindi…» mormorò, con voce incrinata, «è vivo?» Sembrava non avere il coraggio di crederci davvero, come se temesse che un spotesse dissolversi come un’illusione.
«Sì.»
Una sola parola, eppure bastò a ribaltare l’atmosfera. Tutti sentirono il cuore alleggerirsi, come se un macigno fosse stato sollevato dai loro petti. La tensione si trasformò in gioia palpabile; alcuni avevano gli occhi lucidi, incapaci di trattenere le lacrime.
Jean si passò una mano sul viso, gli occhi rossi e gonfi. «Questo è… bello da sentire. Davvero bello.» La sua voce tradiva tutta la commozione che aveva cercato di contenere fino a quel momento.
«Sapete dove possiamo trovarlo?» domandò allora Aether, avanzando di un passo. La sua voce era carica di speranza, ma il silenzio che calò dopo fu più eloquente di qualsiasi risposta.
Ronova scosse il capo lentamente, con un gesto che aveva quasi del crudele. «Purtroppo no. Se ne è certamente tornato a Teyvat… ma non possiamo dire dove.»
Le due sorelle si scambiarono uno sguardo inquieto, come se la sola idea le turbasse. Ronova serrò le labbra, poi aggiunse con riluttanza: «Non è stato… se stesso, negli ultimi mesi.»
A quelle parole, Istaroth sospirò di nuovo, questa volta con un’ombra di dolore che oscurò persino la sua aura divina.
«Cos’è successo al bardo stonato?» chiese Paimon, sbucando appena da dietro la spalla di Aether, come se temesse ancora la presenza delle due divinità. Le sue ali si mossero pigre, ma la sua voce tremava di curiosità e preoccupazione.
Istaroth abbassò lo sguardo, e per un istante la sua figura eterea parve meno distante, meno divina. «Ha affrontato molto, più di quanto avrebbe mai dovuto. Questo ultimo anno lo ha spezzato, e la sua mente non è lucida.» La sua voce era dolce, ma logorata da un’amarezza sottile. Poi aggiunse, quasi a se stessa: «Ecco perché sono sollevata che voi siate qui. Lui tiene a voi… e voi tenete a lui. Forse sarete voi a ricondurlo alla ragione, laddove noi non siamo riuscite.»
Le sue parole scivolarono tra di loro come un vento gelido. Nessuno osò interrompere, aspettando che continuasse.
«Non ha mai superato il lutto,» riprese Istaroth, con un filo di dolore nel tono. «Ogni perdita lo ha ferito a fondo. Ogni volto che ha visto svanire lo ha lasciato incatenato a un passato che non riesce ad abbandonare. L’ultima battaglia… è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Xiao, Andrius…la loro morte lo ha devastato. Ora vive con un’idea malsana, un’ossessione che lo divora: riportarli indietro, a qualunque costo.»
Il silenzio si fece pesante.
Fu Ronova a spezzare quella quiete tesa, il suo tono freddo ma attraversato da un’ombra di timore. «Abbiamo tentato di fermarlo, di fargli ragionare… ma non ci ascolta. Non ci riconosce più. A volte, quando posa lo sguardo su di noi, sembra vedere nemici. E vi giuro, nei suoi occhi non c’è promessa di bene.» La dea serrò la mascella, come se fosse difficile ammetterlo. Poi aggiunse, dopo una lunga esitazione: «Ma se davvero siete i suoi amici… forse c’è ancora una possibilità che vi ascolti. Voi potreste riportarlo indietro.»
Zhongli rimase immobile, le braccia dietro la schiena, ma ogni muscolo del suo corpo si tese mentre le parole delle divinità si insinuavano dentro di lui. Venti non era più sé stesso… in che modo? Desiderava riportare indietro i suoi cari… ma cos’era questo, se non ciò che aveva sempre fatto?
Era nel suo animo, pensò Zhongli. Anche quando aveva assunto le sembianze del suo amico caduto, aveva agito per dare vita, non per toglierla. Cercava sempre di colmare il vuoto con la speranza. Non era forse proprio quello il suo tratto distintivo?
«Parlate come se Venti si stesse trasformando in una sorta di nemico.» La voce di Zhongli ruppe il silenzio, profonda e sicura. «Ma io non vedo nulla di malvagio nel desiderare di riavere accanto le persone che amiamo. È naturale. È umano. In verità… non c’è nulla di più tipico di Venti.»
Le sue parole pesarono nell’aria. E in effetti, per un istante, parvero sensate. Persino Jean abbassò lo sguardo, commossa, e Aether strinse le labbra, pensando a quanti avrebbe voluto rivedere. E se davvero ci fosse stata un’occasione per riportare indietro Xiao, o Andrius…? Persino a Zhongli, il cuore si strinse dolorosamente. Sarebbe stata una benedizione.
Ma poi—
«E se questo significasse distruggere l’equilibrio dell’intero universo?»
La voce di Istaroth tagliò l’aria come un coltello. I suoi occhi, di solito pieni di malinconia, si accesero di un freddo bagliore, così tagliente che perfino Paimon trattenne il fiato.
Zhongli si irrigidì. Quelle parole lo colpirono come macigni. Certo… ogni miracolo ha un prezzo. E lui, più di chiunque altro, conosceva la crudeltà di quei prezzi.
«Venti… ne è consapevole?» domandò Alice, con un filo di voce.
Istaroth annuì lentamente, prima di rispondere con amara fermezza. «Lo sa. Eppure non si ferma. Nonostante sappia che la sua ostinazione potrebbe condannare tutto ciò che esiste, continua a camminare sulla sua strada. È arrabbiato, divorato dal rancore. Non vuole più piegarsi a Celestia. Vuole porre fine al loro dominio, riportare indietro i suoi morti e creare un mondo senza malattia né dolore.» La sua voce si incrinò per un istante, prima di ritrovare la freddezza. «Ma è un sogno vuoto. Un’utopia impossibile che si trasformerà in distruzione. Questo non è il Venti che conoscevo: il Venti di un tempo si sarebbe fermato, avrebbe accettato le conseguenze. Ora invece il suo sguardo… è colmo solo di odio.»
Il gelo calò sulla sala.
«E poi…» Istaroth abbassò le palpebre. «La caduta di Celestia. Quello non è stato un atto di speranza. È stato un atto di guerra.»
Il silenzio durò appena un battito di cuore, prima che esplodesse il brusio tra i presenti.
«Quindi è vero?!»
«Venti… ha fatto crollare Celestia?»
«Non ci posso credere…»
«Dio mio…»
Le voci si accavallarono, un misto di paura e incredulità, come onde che si frantumavano una dopo l’altra. Zhongli abbassò lo sguardo, incapace di rispondere. Il suo cuore pesava come pietra.
E se l’animo di Venti fosse realmente morto in quella battaglia? E se fosse rimasto solo il suo corpo, vuoto, a vagare tra di loro?
Zhongli scacciò quel pensiero oscuro. Non era il momento di lasciarsi sopraffare dallo sconforto. E loro stessi erano ancora vivi, miracolosamente. Dovevano sentirsi sollevati, felici… dovevano.
Per quanto riguarda Venti… Zhongli si sarebbe preso il tempo necessario. Lo avrebbe affrontato con calma, gli avrebbe parlato con fermezza e pazienza, gli avrebbe fatto capire l’errore e, sì, Venti alla fine avrebbe compreso. Si sarebbe scusato per essere stato così sconsiderato…
Sì… da qualche parte, Venti era ancora lì.
Tutto sarebbe andato bene…
giusto?
Chapter 10: Vecchi amici
Notes:
Ciao a tutti!
Ecco a voi il nuovo capitolo! Spero che vi piaccia! buona lettura 🤞🏻❣️
Chapter Text
Venti era esausto. Aveva creduto che prendere i poteri di Rhinedottir non avrebbe avuto conseguenze, che fosse solo un dono da accogliere. Ma si sbagliava, e amaramente.
Da due giorni viveva in completa solitudine: stare vicino ad altre persone era insopportabile. Ogni rumore, ogni odore, ogni voce, ogni emozione... tutto lo colpiva con troppa forza, come lame che gli tagliavano la mente.
All'inizio si era sentito vivo, pieno di energia, quasi invincibile. Ma quella sensazione era durata poco. Presto erano arrivati il disagio, poi lo smarrimento... e infine la perdita di controllo.
Forse Istaroth aveva avuto ragione a chiamarla presunzione. Forse si era spinto troppo oltre. Oppure no: forse non voleva davvero fermarsi. Perché fermarsi significava rinunciare. E ogni cambiamento richiede sacrifici. Sempre.
Si ripeteva che il suo corpo si sarebbe adattato. Era nella sua natura: mutevole e flessibile come il vento. Doveva solo resistere e imparare.
Non poteva permettersi errori. Non avrebbe mai sopportato di ferire ancora degli innocenti. Troppo sangue era già stato versato da chi aveva abusato del proprio potere. Venti non sarebbe stato come loro. Non poteva esserlo.
Eppure non intendeva restare fermo. Avrebbe studiato quella forza, l'avrebbe capita, fino a dominarla. Per ora era riuscito a nascondersi da Istaroth e Ronova grazie a un antico incantesimo insegnatogli secoli prima da Alice.
Nessuno lo avrebbe trovato.
Nessuno lo avrebbe fermato.
Quando fosse stato pronto, avrebbe cercato Zhongli. Gli avrebbe mostrato che esisteva una via, che Xiao poteva tornare in vita.
Non voleva nemmeno immaginare il dolore che Zhongli aveva sopportato in quei mesi... eppure lo conosceva bene. Perché era lo stesso dolore che stava corrodendo anche lui.
Con una differenza: Zhongli lo aveva accettato.
Venti, invece, non intendeva farlo.
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La squadra di soccorso di Venti era stata incredibilmente fortunata: i Primordiali li avevano risparmiati. Per Alice, quello non poteva che essere un miracolo.
Non erano riusciti a riportare Venti con loro, ma almeno avevano ottenuto informazioni preziose. Sapevano che non era in pericolo immediato e che stava ancora vagando per Teyvat. Era un sollievo: se continuava a muoversi, lei avrebbe potuto rintracciarlo senza troppe difficoltà.
Eppure, chi lo conosceva non riusciva a nascondere la preoccupazione. La sua famiglia temeva ciò che stava diventando. Alice, però, non riusciva a immaginare Venti come un nemico. Sarebbe stato contro la sua stessa natura, contro tutto ciò che era sempre stato. Forse c'era stato un errore, forse qualcosa che nessuno aveva ancora compreso davvero.
Per questo bisognava trovarlo il prima possibile. Non solo per fermarlo, se davvero avesse imboccato la strada sbagliata, ma per guardarlo negli occhi, parlargli e scoprire la verità.
Ronova aveva usato la sua magia per riportare la squadra a Teyvat, evitando loro un viaggio lungo e massacrante. Così Alice aveva potuto risparmiare energia, ma nonostante ciò si sentiva svuotata, come se dentro le fosse stato strappato qualcosa. Erano stati fortunati, sì... ma quell'esperienza aveva lasciato un segno profondo.
Se i Primordiali li avessero attaccati davvero, non sarebbero sopravvissuti. Forse sarebbero morti tutti, e Alice sapeva bene che lei sarebbe stata la prima a cadere.
Appena mise piede a casa, Alice non ebbe la forza di fare altro che lasciarsi cadere sul letto. Ogni fibra del suo corpo reclamava riposo, ogni pensiero gridava sonno. Aveva bisogno di recuperare, o avrebbe ceduto del tutto.
Gli altri, però, non se la sentirono di andarsene. Il suo volto era troppo pallido, gli occhi troppo spenti perché potessero ignorarlo. Restarono lì, quasi in silenzio, scrutandola con un'inquietudine che cresceva.
«Sei pallida come un cadavere» mormorò Diluc. La sua voce rimase impassibile, ma sul viso si intravedeva una smorfia di preoccupazione, fugace ma reale.
Alice cercò di rispondere, ma la voce le uscì roca, spezzata da un colpo di tosse. «La magia che ho usato... per entrare nel dominio e separare i nostri corpi dalla linea temporale... ha richiesto più di quanto pensassi.» Le parole si spensero in un sospiro, mentre si lasciava ricadere contro il cuscino, le palpebre pesanti.
«Ti porto dell'acqua» disse Aether, già avviandosi verso l'uscita con passo rapido.
Jean, invece, rimase al suo fianco. «Ti riprenderai presto?» chiese, la voce tesa da un'ansia che non riusciva a celare.
Alice scosse appena il capo. «Non lo so... non ho mai consumato così tanta energia magica in tutta la mia vita.» Il suo respiro era affannoso, e quello sguardo stanco fece stringere il cuore a chiunque la osservasse.
Il silenzio si fece denso, carico di apprensione. Tutti fissavano Alice come se temessero che potesse svanire davanti ai loro occhi.
Lei, con un debole sorriso, decise di spezzare quella tensione. «Potete stare tranquilli, non sto morendo.»
Ma la sua voce tremava, e nessuno sembrava davvero convinto.
Aether tornò nella stanza con un bicchiere d'acqua stretto tra le mani. Si avvicinò piano al letto e lo porse ad Alice, che cercò di sollevarsi. Le sue dita tremavano appena mentre afferrava il vetro, come se anche quel gesto richiedesse più forza di quanta ne avesse.
«Vuoi che ti aiuti?» chiese Aether, piegando la testa verso di lei.
Alice scosse debolmente il capo. «Non serve... posso farcela da sola.» Cercò di sorridere, ma il risultato fu un'espressione fragile, appena accennata.
Il silenzio nella stanza si fece pesante, interrotto solo dal rumore sottile dell'acqua che oscillava nel bicchiere. Poi Kaeya, appoggiato al muro con le braccia conserte, mormorò con tono basso: «Non mi piace per nulla.» Non alzò la voce, eppure tutti lo sentirono.
Aether si voltò verso gli altri, incerto. «Forse potrei scambiare un po' della mia energia con lei... forse l'aiuterebbe a riprendersi.»
«Non pensarci nemmeno!» lo interruppe Paimon, fluttuando nervosa alle sue spalle. «Paimon vede benissimo quanto sei stanco anche tu!»
«Ha ragione.» intervenne Zhongli, la voce profonda e calma, ma attraversata da un filo d'ombra. «Anche tu hai consumato molto oggi. Se lo facessi, finiresti sdraiato su quel letto insieme a lei.»
A quelle parole Aether esitò, stringendo i pugni lungo i fianchi. Aveva voglia di insistere, ma l'espressione tesa degli altri lo convinse a trattenersi.
Zhongli, invece, rimase in silenzio. Da quando erano tornati sembrava distante, distratto, come se una parte di lui fosse rimasta intrappolata in quel dominio. Non aveva ancora pronunciato una sola parola che non fosse necessaria.
Qualcosa continuava a tormentarlo. E, a giudicare dal suo sguardo, non era disposto a condividerlo con nessuno.
«Bene...» mormorò Aether, abbassando la voce come per non disturbare. «Direi di lasciarla riposare. Possiamo controllarla ogni mezz'ora, solo per assicurarci che non peggiori.» Il suo sguardo si posò su Alice: era sprofondata nel cuscino, il respiro lento ma regolare. Sembrava finalmente addormentata.
«Sì, è una buona idea.» approvò Jean con tono deciso. «Meglio non affollare la stanza.»
Uno alla volta uscirono, in silenzio, come se persino il rumore dei loro passi potesse spezzare quel fragile equilibrio. Aether rimase indietro, fermo sulla soglia. Si voltò un'ultima volta verso Alice, e il peso della preoccupazione gli serrò il petto. Non riusciva a liberarsi dalla sensazione che la stesse abbandonando a sé stessa.
Avrebbe potuto aiutare...passare ad Alice la sua energia...
«Aether.»
La voce lo fece sobbalzare. Si voltò di scatto: Zhongli lo stava osservando dal corridoio, immobile come una statua. Gli occhi dorati, severi e consapevoli, sembravano leggergli dentro.
«Vieni.» aggiunse con calma, ma in quel tono c'era qualcosa di definitivo, come se non tollerasse obiezioni.
Solo in quel momento Aether si accorse che Zhongli non si era mai mosso. Era rimasto tutto il tempo a guardarlo, fermo nell'ombra, come in attesa di quel momento.
«Sì, andiamo...» rispose il viaggiatore, ancora sorpreso. Fece un passo verso di lui e insieme si allontanarono, lasciando alle loro spalle il silenzio della stanza, rotto solo dal respiro sottile di Alice.
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Jean, Kaeya e Diluc si misero leggermente da parte, lontani dagli altri, per scambiarsi poche parole in tranquillità.
«E tu? Cosa intendi fare adesso?» chiese Kaeya, rivolgendosi a Jean con il suo solito mezzo sorriso. «Tornerai al tuo ufficio a Liyue?»
Jean scosse piano la testa, lo sguardo deciso. «No. Non finché non avremo trovato Venti.»
«La stessa cosa vale per me.» intervenne Diluc, la voce bassa, quasi spezzata. «Io… gli devo delle scuse.»
Abbassò lo sguardo, mordendosi l’interno della guancia. Da mesi un pensiero lo divorava: le ultime parole che aveva rivolto a Venti non erano state altro che freddezza e accuse. Non poteva cancellare quelle frasi dalla mente. E il timore che quelle potessero essere davvero le ultime cose che il bardo avrebbe mai sentito da lui lo ossessionava.
Ora che sapeva che Venti era vivo, aveva una possibilità. Poteva rimediare. Doveva farlo.
Chiedergli scusa… e ringraziarlo. Perché, dopotutto, se Mondstadt e i suoi cittadini erano ancora in piedi, era merito suo.
«Non tormentarti troppo, fratello.» commentò Kaeya, cercando di alleggerire l’atmosfera. «Con tutto quello che è successo, sono pronto a scommettere che Venti si sia già dimenticato di ogni parola.»
Diluc scosse la testa, ostinato. «Forse… ma questo non rende giusto ciò che ho fatto.»
Il silenzio che seguì era carico di cose non dette.
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Zhongli si allontanò dal gruppo in silenzio. Aveva bisogno di tempo per riflettere, per mettere ordine nei pensieri che gli gravavano addosso come macigni. Certo… non si fidava a lasciare Aether troppo a lungo da solo: conosceva bene quel lampo negli occhi del ragazzo, lo stesso che aveva visto troppe volte in coloro che si preparavano a compiere gesti avventati. Per fortuna Paimon gli stava accanto come un’ombra vigile, e questo era abbastanza per concedergli un minimo di tranquillità.
Uscì dalla casa di Alice, lasciandosi alle spalle il brusio soffocato degli altri. La dimora era grande ma non lussuosa, immersa nel verde, semplice e accogliente. Zhongli si era aspettato qualcosa di più eccentrico, magari simile alla biblioteca che Alice gli aveva mostrato tempo addietro… e invece, sorprendentemente, era una casa normale. Una casa vera.
Si fermò all’aperto, lasciando che la brezza gli accarezzasse la pelle come una mano gentile. Il vento… era diverso. Vivo, pulsante, libero. Dopo mesi di silenzio e immobilità, Teyvat sembrava respirare di nuovo. E per Zhongli, quella era la prova più concreta: Venti era tornato.
Il suo cuore si strinse. Non era solo il bisogno di parlargli. Aveva bisogno di vederlo. Di stringerlo. Di abbandonarsi a quel fragile corpo che nascondeva un’anima eterna, e piangere insieme a lui.
Sì… piangere.
Piangere senza misura, senza dignità, senza maschere. Avvolto dall’odore dolce di vino e di fiori di Cecilia, ascoltando le battute ironiche che Venti avrebbe certamente fatto per sdrammatizzare. Avrebbe voluto stringerlo così forte da impedirgli quasi di respirare, lasciando che le lacrime scorressero per Xiao, per la perdita, per il sollievo stesso di averlo ancora accanto.
Un amico che aveva creduto morto. Un amico a cui aveva persino dato un funerale.
Zhongli sospirò profondamente, e sentì gli occhi inumidirsi. Il vento lo avvolgeva, lieve e caldo, come un abbraccio invisibile.
Eppure, le parole di Ronova e di Istaroth gli tornavano alla mente, come spine: Venti non era più lo stesso, dicevano. Portava con sé odio e rancore.
Ma lì, in quel momento, nel respiro del vento che lo accarezzava, Zhongli non sentiva rabbia. Non sentiva vendetta.
Sentiva soltanto il vecchio amico che aveva sempre conosciuto.
«Ehi, ubriacone… puoi sentirmi?»
La voce di Zhongli si perse nel vento, calma ma colma di attesa. Aveva gli occhi rivolti al cielo, come se cercasse una risposta tra le nuvole, sperando che la brezza portasse con sé un segno.
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“Ehi, ubriacone… puoi sentirmi?”
Venti si immobilizzò. Stava addestrandosi, il respiro spezzato dalla fatica, quando quella voce familiare raggiunse le sue orecchie. Morax.
Il vecchio drago continuava a prenderlo in giro anche ora… persino dopo che il mondo lo aveva creduto morto. Che testardo ottuso.
Un sorriso gli affiorò sulle labbra. Piccolo, timido, ma vero. Non ricordava nemmeno l’ultima volta che avesse sorriso senza forzarsi. Eppure, come sempre, Zhongli ci era riuscito. Bastava una parola, perfino un insulto bonario, per scalfire il muro che Venti si era costruito intorno.
Quel vecchio decrepito…
Con un sospiro, abbassò lo sguardo. Davanti a lui si stendeva il vuoto dei giorni che trascorreva da solo, immerso nell’allenamento. Movimenti ripetuti, fatiche infinite, cicatrici invisibili. Stava migliorando, sì. Sempre più forte, sempre più preciso. Ma la verità era che a volte tutto sembrava… troppo. Troppo grande, troppo pesante.
Eppure resisteva. Resisteva perché credeva di poterlo fare: capire, dominare, piegare quell’energia, fino ad aprire un varco verso l’aldilà.
Riprendere Xiao. Strappare la sua anima al silenzio eterno.
Non sapeva come. Non aveva idea da dove cominciare davvero. Ma non poteva permettersi di fermarsi. Non ancora.
Forse, però… un attimo di tregua non gli avrebbe fatto male.
Si immaginò seduto con una bottiglia di vino tra le mani, Zhongli di fronte a lui con la sua tazza di tè fumante. Due antichi amici, uno di fronte all’altro, come ai vecchi tempi. A ridere, a litigare per sciocchezze, a dimenticare per qualche ora il peso del mondo.
Sì. Forse non era così sbagliato. Forse era giunto il momento di anticipare quell’incontro.
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Zhongli rimase in piedi per diversi minuti, lasciando che il vento gli accarezzasse il volto, portando con sé un senso di familiarità e conforto. Era una carezza leggera, gentile, ma mancava qualcosa… mancava Venti.
Il vecchio drago sospirò, sentendo un peso sul petto, come se ogni muscolo e ogni ossa fossero stanchi insieme alla sua mente.
Non si presenterà… è inutile.
Si voltò lentamente per rientrare, la schiena curva e lo sguardo fisso sul terreno. Ogni passo pesava, ogni pensiero sembrava trascinarsi dietro un macigno invisibile. Ma proprio mentre stava per girare l’angolo, qualcosa cambiò. Il vento intorno a lui divenne più vivo, frizzante e giocoso, quasi a volerlo provocare. Cominciò a scompigliargli i capelli con leggerezza, a volte più deciso, come se cercasse di attirare la sua attenzione.
Zhongli si raddrizzò di colpo, il cuore che accelerava.
Possibile che…?
“Ottusa testa di legno, cos’è quella faccia lunga?”
Si voltò di scatto e lo vide. Venti era lì, a pochi passi, appoggiato a un vecchio albero. Una bottiglia di vino in mano, due calici vuoti poggiati accanto a lui sul terreno. Il sorriso sornione sulle labbra, ma gli occhi… quegli occhi tradivano un velo di malinconia. I lineamenti segnati dalla fatica e dall’isolamento, il corpo leggermente incurvato dall’allenamento incessante e dall’energia nuova che stava cercando di padroneggiare. Ogni suo gesto, ogni piccolo movimento, rivelava la tensione sotto quell’aria spavalda e beffarda.
Zhongli sentì le lacrime affiorare, brucianti e improvvise, ma fece uno sforzo per trattenerle. Non voleva mostrarle, non ancora.
Venti si allargò in un sorriso ancora più ironico, come se sapesse esattamente l’effetto che stava avendo sul suo vecchio amico.
“Non dirmi che ti sono mancato, vecchio drago,” continuò con tono beffardo, ma c’era qualcosa di più sotto quella battuta. Una sottile nota di dolore, di stanchezza, di bisogno di conforto che non riusciva a mostrarsi apertamente.
Quel vergognoso ubriacone…
eppure, per un momento, Zhongli si sentì di nuovo leggero. Come se, nonostante tutto, il vento e il suo amico fossero lì per ricordargli che certe perdite, certe paure… potevano ancora essere affrontate insieme.
Venti si accese di quel suo caratteristico luccichio negli occhi, il sorriso che giocava tra l’ironia e la malinconia, pronto a sfidare il mondo, pronto a prendersi cura di ciò che aveva amato e perso. E Zhongli, pur consapevole del dolore e dei pericoli che lo circondavano, sentì un fremito di speranza risalirgli dal cuore.
Perché, in quel momento, Venti era tornato. E lui era lì, davanti a lui, reale, tangibile… e incredibilmente vivo.
Chapter 11: Ricongiungimento
Notes:
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Chapter Text
Zhongli fissò Venti per un minuto intero, incapace di distogliere lo sguardo, come se davanti a lui ci fosse un fantasma. Gli occhi gli si spalancarono, la mente si fece vuota: semplicemente non sapeva cosa dire, né come reagire.
Aveva avuto la conferma che il suo amico fosse vivo, sì, che fosse davvero tornato a Teyvat. Ma dopo mesi trascorsi a elaborare quel lutto, a convincersi della sua morte, a ricordarlo come un’ombra ormai irraggiungibile… ritrovarselo davanti, così vicino, così reale, era quasi insopportabile da credere.
Mai si sarebbe immaginato che Venti avrebbe risposto al suo richiamo, tanto meno che si sarebbe presentato in persona. Prima era quel piccolo goblin dispettoso che si divertiva a importunarlo in ogni occasione, a strappargli sorrisi anche nei momenti più seriosi. Ma ora? Le parole di Ronova e Istaroth lo avevano dipinto come una creatura diversa, più cupa, isolata, segnata dall’odio e dal dolore.
Zhongli non riusciva ad accettarlo. Non poteva. La sola idea che Venti potesse essere un “villain” era assurda. Non rientrava nella sua natura, non in quella del Dio del Vento che aveva conosciuto.
Il silenzio di Zhongli si prolungò, spezzato solo dal lento scorrere delle lacrime sulle sue guance. E allora Venti sorrise, un sorriso gentile, fragile, che per un attimo illuminò il suo volto.
Gli era mancato così tanto Zhongli.
Si era chiuso in sé stesso, sepolto in quell’oscuro dominio, al punto da dimenticare quanto potesse essere calda la vicinanza delle persone a cui teneva. E ora, vedendolo lì davanti, sentì un calore nuovo risvegliarsi nel petto.
Posò i calici e la bottiglia di vino che stringeva tra le mani, e senza pensarci due volte corse verso di lui, travolgendolo in un abbraccio poco delicato, quasi disperato.
“Mi sei mancato così tanto, vecchio mio…” sussurrò il bardo, la voce incrinata.
Zhongli spalancò gli occhi, riportato di colpo alla realtà. Sentì le braccia sottili di Venti stringerlo, il suo peso leggero contro di lui, e quell’odore familiare di cecilia e mele che gli riempì i sensi. Non era un sogno. Non era un’illusione.
Venti era lì. In carne e ossa.
Il drago lo strinse a sua volta, quasi fino a soffocarlo, come se temesse che potesse svanire da un momento all’altro, dissolversi come nebbia all’alba. Un singhiozzo gli lacerò la gola e le lacrime, incontrollabili, iniziarono a rigargli il volto.
“Io… io pensavo fossi morto…” riuscì a sussurrare con voce spezzata.
“Lo so… lo so… mi dispiace tanto,” rispose Venti, e la sua voce, roca e tesa, tremava come se anche lui stesse cedendo.
Zhongli esitò, sorpreso. Anche Venti stava piangendo?
Non servivano altre parole. Si abbracciarono più forte, e rimasero così, a piangere insieme, fino a quando i primi raggi del sole tinsero l’orizzonte.
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Quando il lungo sfogo giunse al termine, entrambi erano esausti. Gli occhi gonfi, arrossati, ma i cuori più leggeri, come se fossero appena rinati.
«Sai…» iniziò Venti con la voce roca ma intrisa di ironia, «vedere il grande Morax con la faccia di un uomo appena piantato all’altare… è una cosa che mai avrei pensato di vivere. Ti prenderò in giro per secoli e secoli e secoli…» rise piano, un riso ancora umido di lacrime.
Zhongli sbuffò con un finto fastidio, accennando un mezzo sorriso. «Parli tu? Sembri un cadavere emotivo che cammina.»
Venti ridacchiò e gli diede un colpetto scherzoso sulla spalla. «Ah, ma io sono sempre stato emotivo. Ricordi quando mi sono messo a piangere perché avevi calpestato un formicaio?»
Gli occhi di Zhongli si velarono di nuovo, l’ombra di un’emozione attraversandogli lo sguardo. «Come dimenticarlo… mi hai costretto a offrirti un bicchiere di vino per ogni formica uccisa.»
«Esatto!» Venti sorrise, gli occhi brillanti, un misto di affetto e malizia. «La vecchiaia ti rende troppo sentimentale, Morax. Fai attenzione, lavori pur sempre in un’agenzia funebre!»
«Oh, ma stai zitto!» ribatté Zhongli, dandogli a sua volta un colpetto secco, questa volta più deciso.
Per un po’ rimasero in silenzio, seduti fianco a fianco. Davanti a loro, il paesaggio si mostrava vivo e delicato: gli alberi che ondeggiavano mossi dalla brezza serale, la rugiada che iniziava a posarsi sulle foglie, gli animali notturni che si risvegliavano mentre quelli diurni cercavano rifugio. Venti inspirò profondamente: percepiva ogni cosa, come se il mondo stesso lo accogliesse di nuovo.
«Zhongli…» disse all’improvviso, rompendo il silenzio con una voce questa volta seria, «Mondstadt… come sta?»
Zhongli sorrise, un sorriso carico di affetto e un pizzico di malizia. «Be’, direi che se la cava… nonostante tu abbia fatto collassare sopra di lei un’isola intera di Celestia.»
Venti spalancò gli occhi, indignato, e gli saltò addosso cercando di spintonarlo. Zhongli, abituato a quei capricci, lo evitò con calma impassibile.
«Ehi! Sai bene cosa intendevo! Che colpo basso, testa di legno!»
«Questo è per avermi fatto credere per mesi di essere morto.» replicò Zhongli, glaciale ma con un sorriso che tradiva l’emozione.
Venti sospirò, alzando le mani in segno di resa. «Okay… immagino di essermelo meritato.» Il suo sorriso era imbarazzato ma sincero.
«Puoi stare tranquillo,» lo rassicurò Zhongli con tono finalmente serio, «i tuoi cittadini stanno bene. Jean, Diluc e Kaeya sono con me a Liyue. Hanno trovato una casa, un lavoro, una vita. Altri hanno scelto di emigrare in altre nazioni, e anche loro si sono sistemati. Sono vivi, Venti. Tutti vivi.»
Il bardo lasciò andare un lungo sospiro, come se davvero un macigno gli fosse scivolato via dal petto. «Questo… questo è bello da sentire. Davvero. Ho temuto di averli lasciati soli, senza una casa, senza un tetto, abbandonati al freddo e al pericolo.»
Zhongli gli posò una mano sulla spalla, con un gesto lento e carico di calore. «Mai. Non con me accanto. Non l’avrei mai permesso. E non solo io: anche gli altri Arconti hanno accolto i tuoi cittadini senza esitazione.»
Venti gli sorrise, un sorriso grato, finalmente più sereno. «Ringraziali da parte mia… per me significa davvero tanto. Più di quanto io sappia esprimere.»
«Beh… potresti ringraziarli tu stesso.» disse Zhongli, anche se già intuiva quale sarebbe stata la risposta.
Venti abbassò lo sguardo, il sorriso svanito. «Sai che non posso. C’è praticamente una condanna a morte sulla mia testa. Quello che ho fatto ai Principi Celesti… per loro è imperdonabile.»
Gli occhi del bardo si oscurarono mentre pronunciava quelle parole, ed ecco — Zhongli lo notò. Forse quella era davvero l’ombra a cui Istaroth e Ronova avevano fatto riferimento.
«Non posso camminare per Teyvat come se nulla fosse. Devo restare nell’ombra. Se la maggior parte del mondo crede che io sia morto, meglio così. Sarà più difficile per i Principi trovarmi.»
Zhongli sospirò. «Non posso darti torto. Ma ricorda… sai bene che da me avrai sempre rifugio.»
Venti annuì, un sorriso stanco sulle labbra. «Certo. È passato troppo tempo… mi manca scroccare il tuo dominio.»
Zhongli rise piano, ma poi si fece più serio. «Quindi… cosa intendi fare ora? Quali sono i tuoi piani? Sai, Istaroth e Ronova ci hanno parlato di te.»
«Oh, solo cose buone, immagino.» scherzò Venti, ironico. Ma lo sguardo di Zhongli, severo e penetrante, lo fece cedere.
«Va bene…» sospirò. «Diciamo che io e loro abbiamo modi diversi di vedere il mondo. Non voglio ferire nessuno, Zhongli. Io voglio solo riportare indietro chi ho perso… e liberare Teyvat dalla tirannia di Celestia. Alcuni Principi sono morti in quella battaglia, i sopravvissuti si stanno leccando le ferite nell’ombra. Io devo usare questa tregua per diventare più forte.»
Il discorso aveva un suo peso, una logica che non lasciava spazio a dubbi. Tranne per un punto.
«Venti…» mormorò Zhongli, «quando dici riportare indietro… stai parlando di resurrezione?»
Il bardo annuì senza esitare. Zhongli chiuse gli occhi, affranto. «Questo va contro la natura stessa dell’universo. Giocare con la morte significa rischiare di distruggere l’equilibrio di ogni cosa.»
Venti sbuffò, stanco di sentirsi ripetere lo stesso discorso. «Lo so bene. Non sono uno sprovveduto, e non sono un folle assetato di sangue. Posso odiare i Principi con tutto me stesso, ma non ho perso la ragione. Prima di tentare qualcosa di simile, troverò il modo di cambiare quelle regole, di riscriverle. Io non voglio distruggere, Zhongli. Voglio salvare.»
«Non puoi riscrivere l’ordine dell’universo.» ribatté il drago.
« Anche se quell'universo è stato scritto dalla mia stessa specie?» replicò Venti, con voce calma ma carica di convinzione.
Un silenzio pesante scese tra loro.
«Ronova mi ha parlato, Zhongli. Dentro i Primordiali c’è ancora la scintilla dell’origine, quella che ha dato forma a tutto. Se l’inizio è nato da noi… allora anche le regole possono essere cambiate. Non è presunzione, è responsabilità. E io sono disposto a portarla fino in fondo.»
Zhongli rimase immobile, il vento che passava tra gli alberi riempiva il silenzio. Le parole di Venti erano pericolose… eppure, logiche. Non erano follia: erano lucidità, determinazione. Forse gli altri avevano scambiato quella forza per oscurità.
«Possiamo riportare in vita Xiao.» concluse Venti.
Zhongli alzò lo sguardo verso di lui. Il cuore gli si strinse. Dopo mesi di dolore, di notti trascorse nel rimpianto, quella possibilità era come una fiamma in mezzo al buio.
«E tu, amico mio…» disse Venti, tendendogli la mano, «ti andrebbe di aiutarmi?»
Il vecchio drago la fissò a lungo, esitante. Valeva davvero la pena continuare a vivere in un mondo che chiamava pace, ma che era in realtà solo una fragile illusione? Dopo millenni di storia, Zhongli aveva imparato una verità semplice: a volte, per cambiare le cose, bisogna rivoluzionarle.
Allora afferrò la mano di Venti e sorrise. «Sempre.»
E così, all’insaputa di tutti, Zhongli legava il proprio destino a quello del bardo. Unendo le forze non per fermarlo, ma per portare avanti proprio quell’obiettivo che il resto del mondo temeva.
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«Sono passate tre ore e Zhongli non è ancora tornato.» Aether camminava avanti e indietro, lo sguardo fisso verso la porta come se da un momento all’altro potesse aprirsi.
«E se gli fosse successo qualcosa?» la sua voce tremava appena. «Le condizioni di Alice peggiorano di ora in ora… Zhongli è scomparso… io—»
Una mano ferma gli si posò sulla spalla. Diluc.
«Zhongli è un dio. Sono certo che stia bene.» disse con calma controllata.
«Le divinità non sono immuni alla morte.» ribatté Aether, amaro.
Diluc rimase in silenzio. Non c’era nulla da rispondere a un pensiero tanto crudo quanto vero.
Dopo tutto quello che avevano vissuto, Aether non era più lo stesso viaggiatore luminoso e speranzoso di un tempo. Il senso di colpa lo divorava, l’ansia di non poter fare nulla lo schiacciava. La sua luce si era incrinata: era diventato un’ombra di sé stesso.
«Non facciamoci prendere dal melodramma.» intervenne Kaeya, appoggiandosi al muro con le braccia incrociate. «Sarà uscito a prendere aria. Abbiamo tutti bisogno di respirare, dopo quello che è accaduto. Persino un dio.»
Nell’altra stanza, Jean vegliava su Alice insieme a Paimon.
«Pensi che ce la farà?» chiese la piccola creatura, la voce stanca, più fioca del solito. Svolazzava appena sopra la strega priva di sensi, i movimenti lenti, la luce nei suoi occhi spenta.
Alice era immobile, il volto così pallido da sembrare già di marmo. Solo il debole battito del cuore e l’alzarsi e abbassarsi irregolare del petto la ancoravano alla vita.
Jean abbassò lo sguardo su Paimon, sforzandosi di sorridere. «Sono certa che si riprenderà. Alice è la strega più forte di Teyvat.»
Ma dentro di sé… sapeva che era una menzogna. La morte stava già posando la sua ombra su Alice, e Jean riusciva a percepirlo con terribile chiarezza: se la situazione non cambiava, non avrebbe visto l’alba.
Gli occhi le bruciarono. Un nodo le serrava la gola.
Non piangere.
Non piangere.
Devi essere forte. Per gli altri, per Mondstadt, per Aether che vacilla sull’orlo del collasso. Per tutti.
Ma Jean non era una statua. Era giovane, fragile, umana. E anche lei stava cedendo, lentamente, sotto il peso che portava. Proprio come Aether.
E nell’aria immobile della stanza, la sensazione di un domani che forse non sarebbe mai arrivato cresceva, silenziosa, soffocante.
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Poco distante dalla casa di Alice, sotto il cielo appena rischiarato dalla luna, Zhongli e Venti si stavano dando l’ultimo saluto.
Il bardo si alzò, spolverandosi i pantaloncini dalla terra su cui si era seduto, con la solita leggerezza.
«Beh… immagino sia stato un piacere rivederti.» disse, il tono sereno ma lo sguardo che tradiva un velo di malinconia. «Non temere, questa volta non ci metterò interi mesi a farmi vivo.»
Per un attimo, Zhongli ebbe la sensazione di respirare davvero, come se quelle parole fossero state una boccata d’aria fresca.
«Ci conto, amico mio. Dove andrai ora?» chiese il drago, con quella voce calma che nascondeva sempre un turbine di pensieri.
Venti sorrise, alzando appena le spalle. «Ovunque il vento mi porti.»
Era la risposta di sempre. Vaga, evasiva, ma così tipicamente sua. Una parte di Zhongli aveva sentito la mancanza proprio di questo: delle sue risposte leggere come una foglia che scivola via nell’aria.
Il bardo si voltò per andarsene, l’ombra allungata dal chiaro di luna che si muoveva con lui. Un ultimo sguardo, un sorriso fugace…
Fu allora che gli occhi di Zhongli si spalancarono. Un pensiero lo colpì come un fulmine.
Alice.
«Aspetta!»
La voce di Zhongli era stata improvvisamente più ferma, quasi urgente. Venti si fermò di colpo, voltandosi, un po’ confuso.
«Qualcosa non va?» chiese, inclinando il capo, i lunghi capelli scossi dalla brezza.
Il drago lo fissò intensamente, come un faro che si accende nel cuore di una tempesta.
«Venti… tu hai detto di esserti allenato, di aver imparato a controllare le tue abilità temporali, giusto?»
Il sorriso del bardo svanì, lasciando posto a una serietà inconsueta. Annuì.
«Sì.»
Zhongli inspirò a fondo, come se le parole pesassero una tonnellata.
«Allora… ascoltami bene. Alice sta male. Tanto male.» La sua voce si incrinò appena. «Io… temo stia morendo.»
Il silenzio si abbatté improvviso.
Gli occhi di Venti si spalancarono. Il cuore gli precipitò nello stomaco. No.
Non di nuovo.
Non poteva rivivere quell’incubo, non poteva assistere ancora una volta alla lenta fine di qualcuno che amava.
Barbatos aveva già perso troppo, aveva già visto troppe vite sfiorirgli tra le dita senza poter fare nulla.
Non questa volta.
La malinconia che lo accompagnava da sempre svanì, sostituita da una fiamma che ardeva intensa nei suoi occhi.
«Posso aiutarla.» disse senza esitazione, la voce bassa ma tagliente come il vento invernale. «Dimmi cos’è successo.»
Zhongli esitò un momento, poi parlò.
«Siamo riusciti a entrare nel dominio della tua… mh, famiglia. O di ciò che rappresentano per te.»
Venti abbassò appena lo sguardo, ma non lo interruppe.
«Alice ha speso tutta la sua energia magica per farlo. Tutta, Venti. Ora è… un guscio vuoto. Se continua così, non vedrà l’alba.»
Il bardo rimase immobile. Solo il vento parve increspare i suoi capelli, come in attesa di una decisione.
I suoi amici erano arrivati fino a lui, erano riusciti a trovarlo. Alice lo aveva fatto, a costo della sua stessa vita.
E lui avrebbe dovuto stare fermo a guardarla morire?
Di nuovo?
No.
La sua voce uscì ferma, carica di una forza nuova, che persino Zhongli non ricordava di aver mai sentito da lui.
«Zhongli, potresti condurmi da lei?»
Zhongli lo fissò in silenzio, studiandolo. Poi parlò con calma misurata:
«Certo, ti porterò da Alice. Ma non è sola. Ci sono Aether, Paimon, Diluc, Jean e Kaeya. Tu stesso hai detto di dover mantenere un profilo basso… ti farei vedere da loro?»
Per un istante, Venti restò immobile. Il suo respiro si placò, lo sguardo abbassato come a pesare il rischio. Non era paura, ma prudenza. Sapeva che ogni passo falso poteva attirare attenzioni indesiderate.
«Potresti… creare un diversivo per me?» chiese infine, sollevando gli occhi e incontrando quelli di Zhongli. «Spingerli fuori, convincerli a lasciare la casa. Vorrei tanto vederli, lo sai. Ma ora… sarebbe troppo rischioso.»
Il drago annuì, serio, senza esitazioni.
«Ho notato un grande campo di Hilichurl a est. Posso dire di averlo avvistato in avvicinamento: non sarebbe una menzogna. Li convincerò a uscire tutti per affrontare la minaccia. Io rimarrò a vegliare su Alice… e allora tu potrai entrare indisturbato.»
Un sorriso, sottile e malizioso, curvò le labbra del bardo.
«Sei sempre stato un ottimo stratega. Nonostante i secoli, la tua mente resta affilata come una lama. Bene, facciamo così.»
Si avvicinò di un passo, l’aria attorno a lui vibrò di energia Anemo.
«Quando sarai pronto… parla al vento. Io ti sentirò, ovunque sia, e arriverò.»
Le sue parole furono un sussurro che si disperse nell’aria, e il suo corpo iniziò a dissolversi in correnti leggere, come se fosse diventato parte stessa della brezza. In un istante, Venti non era più lì: rimaneva solo il fruscio del vento che giocava tra i rami e i capelli di Zhongli, come se l’Arconte fosse stato inghiottito dall’aria stessa.
Zhongli chiuse gli occhi per un attimo, inspirando profondamente.
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La porta si richiuse lentamente dietro di lui, e con passo misurato Zhongli tornò nella penombra della casa. L’aria all’interno era pesante, carica di preoccupazione e paura.
Aether camminava avanti e indietro come un’anima tormentata, Paimon svolazzava a pochi centimetri da Alice, mentre Jean, Kaeya e Diluc si erano radunati in silenzio, incapaci di distogliere lo sguardo dalla strega priva di sensi.
«Finalmente!» esclamò Aether, voltandosi di scatto. «Dove sei stato? Sono ore che non torni…!»
Il drago mantenne un’espressione calma, la voce ferma come roccia.
«Vi chiedo scusa per l’attesa. Ero all’esterno per valutare una minaccia che si avvicina.»
«Una minaccia?» Kaeya sollevò un sopracciglio.
Zhongli annuì lentamente. «A est, a poche miglia da qui, ho individuato un accampamento di Hilichurl. Sembrano in movimento… e non è un gruppo piccolo. Potrebbero dirigersi verso questa zona da un momento all’altro.»
Jean sussultò, immediatamente vigile. «Hilichurl? In massa?»
«Esatto.» aggiunse Zhongli. «Ho fatto in tempo a contarne almeno una cinquantina. Non possiamo correre rischi: se raggiungono la casa di Alice in queste condizioni, non potremo proteggerla adeguatamente.»
Il silenzio calò improvviso. Aether serrò i pugni, l’ansia mischiata a rabbia. «Allora dobbiamo fermarli. Subito.»
Diluc fece un passo avanti, deciso. «Sono d’accordo. Se davvero sono così numerosi, dobbiamo andare tutti.»
«Non tutti.» intervenne Zhongli con calma glaciale. «Io rimarrò qui. Alice non può essere lasciata senza protezione. Una presenza sarà sufficiente. Voi andate: insieme potete respingerli facilmente.»
Jean esitò. Lo guardò negli occhi, cercando forse un segno di esitazione, ma non trovò nulla se non solida determinazione. Infine annuì.
«Va bene. Ci muoveremo subito.»
Paimon svolazzò ansiosa. «Ma… ma Jean! E se Alice peggiora mentre siamo via?»
«Zhongli sarà con lei.» rispose Jean, quasi per convincere più sé stessa che la piccola fata.
Uno alla volta, gli altri si prepararono a uscire. Aether impugnò la spada con un respiro tremante, Diluc regolò i guanti di cuoio, e Kaeya sorrise appena, il suo tipico sguardo ironico che mascherava la tensione.
Quando la porta si richiuse dietro di loro, il silenzio tornò a dominare la stanza.
Zhongli restò immobile per qualche istante, ascoltando i loro passi allontanarsi nella notte. Poi, con un movimento lento, abbassò lo sguardo verso Alice, pallida e immobile nel letto.
Infine parlò, la sua voce profonda appena un sussurro rivolto al vento:
«Ora, Venti. È il momento.»
Per un istante seguì soltanto silenzio. Poi la brezza, che fino a poco prima sfiorava appena le tende, si alzò improvvisa, più viva, più densa. L’aria parve vibrare, come se la stessa casa trattenesse il respiro. Le fiamme delle candele tremolarono, la finestra si spalancò con uno scatto secco, lasciando che il vento irrompesse all’interno e avvolgesse la stanza.
Zhongli chiuse gli occhi, riconoscendo quella presenza inconfondibile. Un soffio familiare, ironico e ribelle, ma al tempo stesso deciso e colmo di forza.
Venti stava arrivando.
Notes:
Spero che il capitolo vi sia piaciuto!
Mi era mancato scrivere la personalità giocosa e ironica di Venti e soprattutto le sue interazioni con Zhongli. Non abbiamo visto molto nel gioco, ma è più o meno così che le immagino.
Devo dire che questa storia era partita per evolversi in modo totalmente diverso.
Grazie per il supporto ❤️
Chapter 12: Miracoli
Notes:
Ciao a tutti.
Sono riuscita ad aggiornare prima del previsto, anche se il capitolo è un po' più corto. Ma a parer mio doveva concludersi in questo modo.
Cercherò di far uscire il prossimo capitolo il prima possibile!
Buona lettura 🤞🏻💕
Chapter Text
Quando Jean, Aether, Paimon, Diluc e Kaeya si misero in marcia, si aspettavano di trovare un’orda di Hilichurls pronta ad assalirli da un momento all’altro. L’aria era carica, ogni passo sul terreno sembrava più pesante del precedente. Eppure… camminavano, e camminavano ancora. Nessun rumore di tamburi, nessun grido di battaglia. Solo il fruscio del vento e il crepitio lontano degli insetti notturni.
Poi, finalmente, intravidero qualcosa: un piccolo accampamento di Hilichurls. Non armati fino ai denti, non in marcia, non affamati di distruzione. Alcuni dormivano, altri danzavano goffamente attorno a un fuoco, altri ancora cucinavano con lentezza quasi rituale. Sembrava che si stessero… semplicemente facendo i fatti loro.
Il gruppo si mantenne a distanza, nascosto fra le ombre. Non c’era motivo di provocare uno scontro inutile, non quella notte. Erano Hilichurls, certo, ma non una minaccia imminente. E, soprattutto, l’accampamento era abbastanza lontano da non costituire alcun pericolo per la casa di Alice.
Strano.
Zhongli era stato chiaro: aveva visto un gruppo imponente muoversi nella zona. Un contingente di quella portata non sarebbe scomparso così nel nulla. Cinquanta Hilichurls non possono sparire senza lasciare traccia.
«Quindi… che facciamo? Sembra che le informazioni di Zhongli non fossero corrette.» commentò Kaeya, il tono tagliente ma incuriosito.
Jean corrugò la fronte, stringendo l’impugnatura della spada. «O forse abbiamo preso la direzione sbagliata! Se fossero già sotto attacco—»
«Improbabile.» la interruppe Diluc, con calma glaciale. «In questa zona non ci sono molti alberi, e il silenzio parla da sé. Cinquanta Hilichurls li avremmo visti. O almeno sentiti.»
Il gruppo rimase in silenzio per un istante, consapevole che avevano già camminato per oltre quaranta minuti senza incontrare altro.
«Paimon pensa che dovremmo tornare indietro e controllare!» sbottò la piccola creatura, incrociando le braccia.
Aether annuì, e gli altri, seppur riluttanti, si unirono alla decisione. Così fecero marcia indietro, diretti verso la casa di Alice.
Eppure, mentre avanzavano nel silenzio della notte, un pensiero identico passò per la mente di ciascuno di loro.
Che strano… troppo strano.
Come se quel viaggio fosse stato più che un semplice errore di direzione.
---
Quando il vento si placò all’interno della casa di Zhongli, Venti si materializzò davanti a lui, il suo corpo formato da correnti danzanti che si condensarono in carne e ossa.
«Hai fatto in fretta,» commentò il bardo.
Zhongli annuì, ma la sua voce tradiva una lieve stanchezza: «Anche se mi toccherà rispondere a parecchie domande una volta tornati. Dovrò inventare una buona scusa.»
Venti gli rivolse un sorriso sornione e un occhiolino. «Sei sempre stato bravo in questo.»
Il vecchio drago sbuffò, come a dire parli tu.
Poi lo sguardo di Venti cambiò. La leggerezza svanì, sostituita da una serietà assoluta. «Dove si trova Alice?»
Ma non aspettò risposta. La sua sensibilità agli spiriti, ai flussi vitali, percepì immediatamente quel flebile battito di energia provenire da una stanza vicina. Un soffio che rischiava di spegnersi. E senza aggiungere altro, il bardo si mosse veloce, guidato dall’istinto.
«Che senso ha farmi le domande, se poi non mi lascia nemmeno rispondere…» mormorò Zhongli, rassegnato, seguendolo a distanza.
Venti entrò piano. La stanza era immersa in un silenzio quasi innaturale, denso, come se persino l’aria esitasse a muoversi. L’oscurità delle ombre era greve e l’odore della morte aleggiava sottile, pungente.
Al centro del letto, Alice. Pallida come cera, immobile, il petto che si sollevava appena. Sembrava già appartenere a un altro mondo.
Venti si irrigidì. La scena gli riportò alla mente un’altra immagine, un altro volto: Rhinedottir. Il momento in cui la vita le era scivolata via tra le dita.
Un fallimento che ancora lo perseguitava.
E se stesse per ripetersi?
Se anche stavolta fosse lui l’artefice di un destino simile?
Scosse la testa, respingendo quell’ombra.
Concentrati.
Si avvicinò al letto e posò una mano tremante sul lenzuolo, sopra il corpo della strega. «Posso riportare indietro il suo corpo, farlo tornare a prima che bruciasse tutta la sua energia. Ma prima devo capire se la sua anima resiste ancora… se non ha già intrapreso il cammino verso l’aldilà.»
La voce di Venti si abbassò, grave. «La chiamerò. Se risponderà, se tornerà a me, allora avrò la forza di riportarla indietro.»
Zhongli lo fissò in silenzio, poi annuì solennemente. «Va bene. Mi fido di te.»
Ti prego, che la tua fiducia non sia mal riposta, pensò Venti, serrando la mascella.
Si raddrizzò e inspirò profondamente. Le correnti risposero subito, avvolgendolo. Zhongli fece qualche passo indietro, lasciandogli lo spazio necessario.
Un’esplosione silenziosa.
Il vento proruppe dal corpo del bardo, riempiendo la stanza con una forza invisibile che fece vibrare ogni cosa. I lampadari tintinnarono come campane, le mensole tremarono, i libri e le carte si sollevarono da terra iniziando a volteggiare. La realtà sembrava sospesa in un turbine azzurro.
Gli occhi di Venti si accesero di un turchese vivido, i suoi tatuaggi e le trecce brillarono della stessa luce.
Il vento si raccolse attorno al corpo di Alice, avvolgendola in un bozzolo luminoso, come in un abbraccio. Una tenue aura azzurra pulsò, riempiendo la stanza di un chiarore irreale.
E allora, con voce che non sembrava nemmeno umana, ma ultraterrena, Venti parlò:
«Alice… se mi senti, torna da me.»
Il silenzio rispose.
Ma lui insistette, la sua voce un richiamo che non poteva essere ignorato:
«Alice, torna a casa. Segui la mia voce.»
Il vento si fece più intenso, come se anche il mondo intero l’invocasse.
«Torna a casa, Alice… torna da noi.»
---
Alice era anziana. Lo sapeva, lo sentiva in ogni fibra del suo corpo logorato dal tempo. Aveva studiato la vita, le sue regole, i suoi segreti, ma la morte… la morte restava l’unico mistero che non era mai riuscita a decifrare.
E ora, in quel luogo sospeso, era lì davanti a lei.
Non aveva paura. Non della morte in sé, almeno. Il suo unico timore era il dolore che la sua assenza avrebbe lasciato negli altri, il vuoto che avrebbe scavato nei loro cuori.
Era avvolta da un buio infinito. Non era né freddo né ostile, anzi: era morbido, come un manto che la sosteneva. A tratti diventava bianco, un bianco accecante, poi di nuovo nero, e ancora bianco. Un ciclo senza logica, un ritmo lento che non obbediva a nessuna legge fisica.
E in quel vuoto, Alice si sentiva… in pace. Una pace che non aveva mai conosciuto davvero in vita. Leggera come mai prima.
Poi iniziarono i ricordi. Non uno per volta, ma un fiume che la travolse tutta insieme. Scene vivide, frammenti che si rincorrevano come schegge di vetro in una corrente: i suoi primi incantesimi, i fallimenti che l’avevano fatta piangere, le risate condivise con compagne ormai dimenticate dalla storia, le notti insonni passate a studiare.
Rivide Klee, il suo piccolo miracolo, e il primo incontro con Albedo. Rivide pomeriggi interi trascorsi a sorseggiare tè con le sue compagne e tutti i vecchi amici che non erano più di questo mondo. Ogni gioia, ogni dolore, tutto si mescolava.
Eppure, man mano che i ricordi fluivano, si facevano più sfocati. Le voci diventavano flebili, lontane, come sussurri trascinati via dal vento. I volti svanivano come dipinti lavati dalla pioggia. Stava perdendo ogni cosa.
Alice allora si voltò, e davanti a sé scorse una luce. Non bianca, ma rossa. Calda, avvolgente, irresistibilmente dolce. La osservava e capì subito cosa fosse. Bastava un passo e avrebbe smesso di lottare. Non più dolore, non più battaglie, non più responsabilità. Solo riposo. Una promessa eterna.
Eppure, mentre la guardava, ebbe la netta sensazione di non essere sola. Qualcuno, o qualcosa, la osservava da dentro quella luce. Un’ombra indefinita, occhi invisibili che pesavano su di lei. Ronova. Non la vedeva, ma la percepiva. Presente. Vigile. In attesa.
Alice si voltò di nuovo, verso l’altra direzione. Lontano, come riflessi sull’acqua, intravide sagome familiari: Klee, Jean, Albedo, l'Hexenzirkel, Venti. Cercò di correre verso di loro, ma più si muoveva, più sembravano allontanarsi. Ogni passo era vano. E intanto la luce rossa si faceva sempre più vicina, come se fosse lei a muoversi verso Alice.
Un respiro. Un battito.
Forse era arrivato davvero il suo momento. Forse non c’era niente da fare.
Alice chiuse gli occhi, stanca. Sentì il calore della luce che le lambiva la pelle, pronta ad accoglierla. Si lasciò andare, cedendo al richiamo.
Un altro passo e… sarebbe finita.
Poi.
Una voce.
Chiara. Decisa. Colma di vento.
«Alice… se mi senti, torna da me.»
Il tempo si fermò.
La strega spalancò gli occhi, sorpresa. Quella voce… non poteva sbagliarsi. La conosceva fin troppo bene.
«…Venti?»
Il suo cuore sobbalzò. La luce davanti a lei tremolò, come se la voce l’avesse disturbata. Per la prima volta, la pace che l’avvolgeva si incrinò.
---
La stanza rimase sospesa in un silenzio irreale.
Nessuno fiatava.
Zhongli osservava in silenzio, immobile, il turbine di vento che avvolgeva Alice. Ma la donna non reagiva. Il suo corpo giaceva inerte, come scolpito nella cera.
Erano passati quasi dieci minuti dall’inizio di quello strano rituale. Dieci minuti eterni.
«Forza… Alice,» mormorò Venti, la voce incrinata dalla fatica. Il sudore gli scivolava lungo le tempie, mentre le correnti si piegavano alla sua volontà.
Non riusciva a percepire la sua anima.
Non un sussurro, non un’eco.
Nulla.
Era già troppo lontana? Forse aveva già oltrepassato il confine.
Forse stava morendo, e lui era arrivato tardi.
Ancora una volta.
Un gelo gli corse nelle vene...
No.
La rabbia ribollì in lui. Non poteva permettersi di fallire di nuovo. Non avrebbe permesso a Ronova di portarla via.
Con un ringhio soffocato, spinse ancora più a fondo la sua energia. I suoi denti serrati, le vene pulsanti sulle tempie. Un dolore acuto gli trapassò la testa, un martello incessante.
Se continuo così… sverrò. Non posso—
«TROVATA!»
Il grido di Venti squarciò la tensione, vibrante di gioia e sollievo.
Zhongli sussultò appena, mentre i venti, come creature vive, esultarono attorno a loro.
«L’ho sentita!» ansimò il bardo, quasi incredulo. «La sua anima… si muove! È laggiù, nelle profondità… tra la vita e la morte… ma c’è ancora. L’ho raggiunta in tempo.»
Si voltò verso Zhongli, gli occhi che brillavano di una febbrile speranza. «E penso che lei mi abbia sentito, Zhongli… sì… penso che mi abbia sentito.»
Il drago lo fissava con sguardo grave, notando la sua debolezza, il tremore delle braccia, il respiro spezzato. «Sembri esausto.»
«Non posso fermarmi adesso.»
Venti serrò le palpebre, e la luce turchese che emanava dal suo corpo mutò lentamente in un bagliore dorato, più intenso e freddo. L’aura riempì la stanza, cancellando le ombre.
«Forza… puoi farcela,» mormorò, stringendo i denti.
Non sapeva se lo stesse dicendo ad Alice…
…o a sé stesso.
---
«Alice… se mi senti, torna da me.»
La voce spezzò il silenzio, netta come un colpo di vento che squarcia le nubi.
Alice spalancò gli occhi. Quel timbro… lo conosceva.
Era Venti.
La luce rossa tremolò, come disturbata dalla sua esitazione. Per un istante la strega sentì due forze opposte contendersela: da una parte la pace definitiva, dall’altra quella voce che urlava il suo nome con disperazione.
«Torna a casa… segui la mia voce.»
Un brivido percorse la sua essenza.
Non era un’illusione. Non poteva esserlo.
Alice mosse un passo lontano dalla luce. Poi un altro.
Ogni movimento era faticoso, come avanzare nella melma. La calma che prima l’aveva avvolta ora sembrava catene che tentavano di trattenerla.
«Torna da noi, Alice.»
Il vento.
Lo sentiva davvero.
Una corrente lieve che le accarezzavano i capelli, la pelle, la spingeva avanti. Non era più un richiamo distante: era una mano tesa, pronta a trascinarla indietro.
Alice corse. Non verso la luce, ma contro di essa, lasciandola alle sue spalle.
Le voci dei suoi ricordi riaffiorarono, sempre più nitide: il sorriso di Klee, lo sguardo curioso di Albedo, le risate di vecchie amiche ormai lontane. E sopra tutte, quella voce ostinata che non smetteva di chiamarla.
«Venti…» mormorò, le labbra tremanti.
Il buio iniziò a dissolversi.
La luce rossa svanì, sostituita da un bagliore dorato che le avvolse il corpo. Un calore diverso, non di addio… ma di ritorno.
Alice inspirò. Un respiro vero, forte, che riportò vita nel suo petto.
---
Zhongli osservava in silenzio, lo sguardo fisso sul corpo di Alice mentre la luce dorata la avvolgeva come un mantello divino. Era come assistere a un miracolo: le labbra prima livide tornarono a colorarsi, la pelle riprese calore, e il battito del suo cuore si fece sempre più regolare. Il petto, prima quasi immobile, ora si sollevava e si abbassava con un ritmo lento, armonioso, rassicurante.
Alice era tornata.
Un sospiro di sollievo gli sfuggì appena, impercettibile.
Venti lasciò uscire un ultimo respiro profondo, e con esso il vento si dissipò, rifluendo dentro di lui. L’aura dorata svanì, i libri e i fogli sospesi ricaddero piano al loro posto, e nella stanza rimase solo il silenzio interrotto dai respiri vivi di Alice.
Il bardo barcollò. Le gambe non lo reggevano più.
Zhongli, prevedendo la caduta, fu pronto a sostenerlo, cingendolo con un braccio saldo.
«Sei stato bravissimo, Venti.» disse a bassa voce, quasi con reverenza. «Ci sei riuscito. Ora riposa.»
Il bardo, stremato, alzò appena lo sguardo verso Alice. Un piccolo sorriso gli piegò le labbra, colmo di sollievo e di affetto, come se tutto il dolore, la paura e il rischio appena affrontati fossero valsi quell’unico istante. Poi i suoi occhi si posarono su Zhongli, e lì, tra la fatica e la pace, si chiusero.
Cadde in un sonno profondo, abbandonandosi senza timore al sostegno del suo migliore amico.
Chapter 13: L'armadio parlante di Alice
Notes:
Okay diciamo che questo capitolo doveva essere diverso ma...per qualche motivo ha preso una piega totalmente diversa.
Che dire... divertiti 🤣
Buona lettura ❣️
Chapter Text
Zhongli non era in una situazione ottimale.
Anzi, era decisamente pessima.
Aveva Venti, sfinito e privo di sensi, tra le braccia. Il corpo leggero del bardo sembrava quello di un ragazzo comune, fragile e vulnerabile, e non quello di un Arconte. Le ciocche scure e turchesi gli ricadevano sugli occhi chiusi, e il suo respiro era lento, troppo lento per rassicurare davvero. Ogni tanto un singhiozzo o un piccolo gemito sfuggiva dalle sue labbra, e Zhongli si domandava se il peso che portava non fosse solo quello fisico, ma quello di millenni di dolore e sacrificio.
Eppure non c’era tempo per riflettere. Alice avrebbe potuto aprire gli occhi da un momento all’altro, e soprattutto… il gruppo stava per rientrare.
No.
Non era affatto un buon momento.
Il drago si guardò attorno, lo sguardo acuto ma teso, come un generale che cerca una via di fuga in un campo di battaglia circondato. Non poteva certo lasciare Venti in mezzo alla foresta, inerme: sarebbe stato un affronto alla loro amicizia e alla dignità del bardo. Ma nemmeno poteva lasciarlo così, in bella vista, sotto gli occhi di tutti.
La casa di Alice non offriva molte soluzioni. Modesta, ma spaziosa quanto bastava. Una sola camera da letto, un salone piuttosto ampio con mobili e dispense, un bagno. E poi la stanza di Klee.
Zhongli vi rivolse uno sguardo, subito pentendosene. Scaffali ricolmi di giocattoli, pupazzi colorati e… un numero imbarazzante di bombe camuffate da gingilli innocenti. Non il posto migliore per nascondere un Arconte incosciente.
«Cosa fare… cosa fare…» mormorò tra sé, e il suo cuore, solitamente imperturbabile, batteva più forte del previsto.
Fu allora che un colpo secco interruppe i suoi pensieri.
La porta d’ingresso si aprì.
Oh no.
«Zhongli, siamo tornati!» annunciò Aether, e subito dopo il suono dei passi riempì la casa. Il gruppo stava marciando verso la stanza di Alice.
Panico.
“Cavolo. Cavolo. Cavolo.”
Zhongli fece scorrere lo sguardo per la stanza come un falco in cerca di preda. E poi lo vide. Lì, accanto al letto: l’armadio.
Un lampo d’ispirazione. O di disperazione. Probabilmente entrambe le cose.
Con una rapidità sorprendente per la sua età apparente, aprì lo sportello e vi infilò dentro Venti, maneggiandolo con meno grazia di quanto avrebbe voluto. Il bardo collassò tra gli abiti e le coperte come un sacco di patate, senza nemmeno un lamento.
«Mi dispiace, amico mio…» sussurrò Zhongli, richiudendo l’anta giusto in tempo.
Un istante dopo, la porta della stanza si spalancò ed entrarono Aether, Paimon, Jean, Diluc e Kaeya. I loro occhi si posarono immediatamente sul letto di Alice.
Zhongli era lì, perfettamente eretto e composto, con le mani dietro la schiena e lo sguardo tranquillo. L’immagine della calma incarnata.
«Oh, vedo che siete già rientrati. Sono felice di vedervi sani e salvi.» disse con un sorriso pacato, quasi paterno.
Gli altri lo fissarono con espressioni scettiche.
«Sì, perché non c’era nulla da combattere. Sicuramente non i cinquanta Hilichurls di cui ci avevi parlato.» ribatté Kaeya, incrociando le braccia e inclinando il capo, come a voler scavare dietro quella maschera imperturbabile.
Zhongli non batté ciglio. «Oh… davvero? Non riesco a spiegarmelo. Li ho visti con i miei occhi.» La sua voce era calma, il tono fermo, eppure le mani dietro la schiena si contrassero appena.
Jean corrugò la fronte. «Eppure non capisco come possano essere spariti così all’improvviso…»
«Forse l’Abisso ha aperto un portale.» propose Zhongli con la stessa naturalezza con cui avrebbe parlato di un cambio di stagione.
Diluc scosse il capo, incupito. «L’Abisso è stato praticamente decimato da Venti, e poi da Celestia. Dubito che abbiano ancora la forza di aggirarsi qua e là.»
Il drago fece spallucce, come se la cosa non lo riguardasse minimamente. «Sicuramente una situazione strana, da indagare con attenzione. Non avete trovato proprio nulla?»
Paimon, con le braccia conserte e un sopracciglio alzato, sospirò. «Solo un accampamento con una decina di Hilichurls. E si stavano facendo i fatti loro.»
«Capisco…» mormorò Zhongli, annuendo lentamente. Poi aggiunse con tono grave e solenne: «Allora la spiegazione è chiara. Se li sono mangiati.»
«…Eh?» fecero tutti in coro, fissandolo con occhi spalancati.
Zhongli mantenne un’aria di serietà assoluta. «In tempi di crisi è possibile che gli Hilichurls ricorrano al cannibalismo per sopravvivere. Nei miei seimila anni l’ho già visto accadere più volte.»
Il silenzio che seguì fu pesante. Tutti lo fissarono con una miscela di disgusto e incredulità.
«A Paimon sembrano un mucchio di palle!» sbottò la fatina, puntandogli un dito addosso.
«Paimon, linguaggio!» la rimproverò Aether, sebbene il mezzo sorriso che gli tremolava sulle labbra rivelasse che, in fondo, era tentato di darle ragione.
«Ma cosa?! È vero, e poi—»
Un rumore li interruppe.
Un leggero… russare.
…
Jean si irrigidì, aggrottando le sopracciglia. «Aspettate. Ma cos—»
«Oh! Quasi dimenticavo!» esclamò Zhongli, muovendosi di scatto per coprire l’armadio, proprio accanto al letto di Alice. Allargò le braccia con un gesto teatrale. «Alice sta meglio! Ora dorme profondamente. Sentite come russa!»
Indicò la strega, che giaceva pallida ma serena sul letto. Immobile. E soprattutto… silenziosa.
«A Paimon non sembra stia russando.» osservò la fatina, stringendo gli occhi in un lampo di sospetto.
Zhongli trattenne un sospiro esasperato. Da quando quella creatura era diventata così attenta ai dettagli?
«Ma sì, chi potrebbe essere altrimenti?» tagliò corto, forzando un sorriso. La sua voce era calma, ma ogni parola era intrisa di sottile disperazione.
Aether si avvicinò al letto, distogliendo l’attenzione. «In effetti sembra stare molto meglio. Ha preso nuovamente colore sul volto, e il battito è regolare.» disse, sollevato.
Jean annuì. «È incredibile… come ha fatto a riprendersi così in fretta?»
«Beh,» rispose Zhongli con la sua solita calma, «come ho detto, Alice è forte.»
Un altro russare provenne dall’armadio. Più chiaro. Più ostinato.
Zhongli alzò la voce di colpo, cercando di coprire il suono. «Sapete cosa? Perché non andiamo di là? La stanza è piccola e Alice ha bisogno di riposare. Ormai è stabile, starà bene da sola.»
Con apparente calma, ma in realtà disperato, iniziò a spingere fuori gli altri verso la porta. Nessuno protestò, ma le loro espressioni erano un mosaico di perplessità.
Poi accadde.
Un mugugno sommesso ruppe il silenzio. Seguito da un tonfo sordo. Qualcosa si era accasciato dentro l’armadio.
«Okay, basta.» disse Diluc, la voce piatta ma carica di sospetto. «Cosa diavolo stai nascondendo là dentro?»
Zhongli mantenne il suo tono solenne. «Cosa? Senti, qualche giorno fa sono entrato nella biblioteca di Alice e un quadro parlava. Cosa ti fa dire che non possa farlo anche un armadio?»
Il silenzio che seguì fu glaciale.
«Questo è ridicolo.» sbuffò Paimon, fluttuando decisa verso l’armadio.
Zhongli allungò una mano, nel panico. «Aspetta—!»
Troppo tardi.
L’anta si spalancò da sola e un peso morto russante cadde fuori, travolgendo la povera Paimon che finì schiacciata sotto di lui.
«AHHH! PAIMON È SOTTO ATTACCO!» gridò la creatura, agitando disperatamente braccia e gambette.
La stanza si paralizzò. Gli occhi di tutti si spalancarono.
E poi, all’unisono, urlarono:
«MA CHE CAZZO?!»
Venti giaceva lì, addormentato come un sasso, con un’espressione beata e un filo di bava all’angolo della bocca.
Zhongli sospirò, portandosi una mano dietro la nuca con un sorriso imbarazzato.
La scena era surreale.
Venti, scomparso da mesi , si trovava steso per terra come uno straccio umido, russando rumorosamente e schiacciando Paimon sotto il suo peso piuma—che, evidentemente, non era poi così piuma.
«AHHH! PAIMON È SOTTO ATTACCO! QUALCUNO LA TIRI FUORI DA QUESTO INCUBO!» urlava la fatina, agitando le gambette come un insetto rovesciato.
Il gruppo rimase pietrificato per alcuni istanti, cercando di elaborare la scena. Jean aveva la bocca spalancata, Aether sembrava sul punto di chiedere a Celestia se stesse sognando, Diluc aveva le sopracciglia talmente aggrottate da rischiare di fonderle, e Kaeya… beh, Kaeya stava ridendo e piangendo allo stesso tempo.
«Oh, ma guarda un po’…» disse infine Zhongli, con un sorriso teso che non convinceva nessuno. «Abbiamo trovato Venti. Che… fortuna.»
Silenzio.
Pesante.
Sospetto.
Infastidito.
Poi Kaeya si piegò in due, ridendo fino alle lacrime. «Per gli Dei… non ce la faccio… Venti, nell’armadio?! È la miglior trovata di sempre!»
«Non c’è proprio niente da ridere!» sbottò Jean, indignata, puntando un dito contro il povero bardo addormentato. «Che ci faceva lì dentro?!»
«Magari cercava vino.» commentò Diluc con tono gelido, incrociando le braccia, ma nei suoi occhi si poteva intravedere una velata emozione.
«Io—» iniziò Zhongli, cercando disperatamente una scusa.
«No, aspetta!» lo interruppe Aether, con un’espressione tra l’incredulo e l’esausto. «Hai… hai provato a nascondere Venti in un armadio?!»
Zhongli si schiarì la gola. «Definirei la mia scelta… un atto di prudenza strategica.»
«Strategia?» sbottò Jean. «Infilare un Arconte svenuto tra le giacche e le coperte? Questa la chiami strategia?!»
«Beh, poteva andare peggio.» ribatté Zhongli con compostezza. «Potevo infilarlo nella stanza di Klee.»
Un brivido collettivo percorse l’intero gruppo. L’idea di Venti addormentato tra esplosivi travestiti da peluche non aveva bisogno di ulteriori commenti.
Intanto Paimon si contorceva, urlando: «Ragazzi! Prima che muoia schiacciata da questo coso! Non vedete che sto—»
Un improvviso russare di Venti coprì le sue parole. Forte, sonoro, quasi teatrale. Come se il bardo volesse sottolineare la sua totale indifferenza alla situazione.
Kaeya rise di nuovo, piegandosi contro il muro. «Lo giuro… questa scena me la ricorderò per secoli!»
«Kaeya, non è il momento.» ribatté Jean, massaggiandosi le tempie. «Abbiamo un Arconte incosciente, un altro che mente spudoratamente e… Paimon incastrata.»
«Un classico pomeriggio, direi.» commentò Diluc con la sua voce monotona.
Aether, sospirando, si chinò e con un certo sforzo sollevò Venti, liberando Paimon che emerse dall’abbraccio letale del bardo con un’espressione traumatizzata.
«Paimon ha visto la sua vita passare davanti agli occhi!» gemette, spolverandosi con aria indignata. «E non era nemmeno divertente!»
Venti, sollevato di peso, lasciò cadere la testa sulla spalla di Aether e, come per sfregio, mormorò qualcosa nel sonno. Una parola sola, biascicata ma chiarissima:
«…vino…»
«Ma certo.» disse Diluc, sbuffando.
Jean portò una mano alla fronte. «Non so se ridere o disperarmi.»
Zhongli, nel frattempo, cercava di mantenere il suo aplomb. Si sistemò il bavero, inspirò a fondo e dichiarò con voce solenne: «Come potete vedere, la situazione è sotto controllo.»
«Sotto controllo?» esplose Paimon, roteando furiosa in aria. «C’era un bardo ubriacone nell’armadio, mi ha schiacciata, e tu parli di controllo?!»
«Almeno è vivo.» ribatté Zhongli, glaciale.
«Sì, ma Paimon rischiava di non esserlo più!»
Kaeya rise ancora più forte, mentre Jean e Diluc si scambiavano occhiate stanche. Aether, al contrario sembrava trattenere una certa furia e sensazione di tradimento nei confronti di Zhongli. Guardando Venti però...si rasserenò, almeno per il momento.
E così, tra un Arconte russante, una fata traumatizzata e un drago che fingeva innocenza, la stanza si riempì di un solo pensiero condiviso da tutti:
Finalmente Venti era tornato tra le loro braccia.
Chapter 14: Amici o Rivali
Notes:
Sorpresa!
Dato che il capitolo precedente era più breve del solito. Ecco un altro capitolo per voi!
Spero che vi piaccia! Buona lettura 🤞🏻💕
Chapter Text
Il gruppo si ritrovò nel salotto, alcuni seduti sulle sedie disponibili, altri sul divano. Zhongli, al centro della scena, riceveva sguardi giudicanti da ogni direzione.
Venti, invece, stava riposando proprio accanto ad Alice. Il letto matrimoniale offriva spazio sufficiente per due persone, sicuramente più comodo di un armadio… un fottuto armadio.
Jean si teneva la fronte, visibilmente scossa, mentre Diluc restava appoggiato allo stipite della porta, con lo sguardo impassibile. Almeno in apparenza. La tensione nei suoi muscoli tradiva tuttavia una rabbia trattenuta.
Kaeya, come al solito, si limitava a osservare, curioso di vedere come si sarebbe evoluta la situazione.
Paimon, invece, aveva il broncio. La fatina era palesemente offesa per quanto le era accaduto pochi minuti prima, e il suo umore era a dir poco esplosivo.
Ma il più sconvolto, e decisamente deluso, era Aether.
«Perché diavolo ci hai nascosto Venti?» chiese, la voce quasi un urlo di frustrazione.
«Sapevi da quanto lo stavamo cercando, quanto abbiamo sofferto. Con quanta disperazione ci stavamo aggrappando alla speranza di ritrovarlo… E quando finalmente lo trovi, cosa fai? Lo nascondi in un fottuto armadio?!»
Aether camminava avanti e indietro, gesticolando continuamente, come se i movimenti potessero liberare la sua tensione. Solitamente pacato e controllato, ora sembrava un’altra persona.
La verità era evidente a tutti: dopo il tradimento di sua sorella, Aether non poteva più sopportare segreti. Non poteva tollerare azioni fatte di sotterfugi o decisioni prese alle spalle degli altri. Ogni gesto nascosto, ogni silenzio forzato, diventava per lui insopportabile.
Zhongli sospirò, cercando di trovare le parole giuste. «Capisco la tua rabbia, ma—»
«No, non lo fai.» Lo interruppe subito Aether, la voce vibrante di tensione. «Perché se davvero l’avessi capito, mai ti sarebbe passato per la testa di fare una cosa del genere. Mai avresti nascosto il nostro amico che stavamo cercando, dopo che abbiamo creduto per mesi che fosse morto.»
Aether stava esplodendo. Non sapeva come reagire, tutto quel dolore represso e accumulato nei mesi — rabbia verso se stesso, senso di colpa verso se stesso — ora emergeva come un vulcano in piena eruzione. Non era diretto a sé stesso, ma a Zhongli.
Il drago non aveva nulla da replicare. Aether aveva tutto il diritto di sentirsi tradito. Al suo posto, anche Zhongli sarebbe stato furioso.
«Aether, forse dovresti sederti un attimo e respirare…» provò a intervenire Jean, la voce calma ma ferma. Tutti restarono impietriti; nessuno aveva mai visto Aether così arrabbiato.
«Non voglio stare calmo. Non in una situazione del genere!» esplose Aether, fissando Zhongli con occhi che sembravano fiamme. «Perché l’hai fatto?»
Lo sguardo del drago rimase stoico, immobile. La furia di Aether non sembrava scalfirlo minimamente. Solo un leggero sospiro, profondo e misurato, tradì un briciolo di stanchezza.
«Non è mai stata mia intenzione nascondervi Venti.» disse Zhongli infine, con voce calma e misurata. «È stata una sua scelta. Voleva mantenere un profilo basso. Al momento, i principi celesti potrebbero dargli la caccia. Meno persone sanno dove si trovi, meglio è.»
Per un attimo, la rabbia di Aether sembrò attenuarsi. Poi, con un filo di voce, quasi un sussurro carico di incredulità, chiese:
«Da quanto tempo lo stai nascondendo?»
Zhongli incrociò le braccia, assumendo la sua consueta postura composta, come se stesse misurando attentamente ogni parola.
«In verità, molto meno di quanto tu possa pensare. L’ho incontrato quando sono uscito per tutte quelle ore. Ho chiamato il suo nome e lui si è presentato. Gli ho spiegato che Alice stava male… e ho trovato un diversivo per farvi uscire di casa, così da permettere a Venti di agire indisturbato. Riportare Alice in forma, però, ha richiesto molta energia, considerando che era praticamente già tra le braccia della morte. Ed è collassato. Dopo pochi minuti siete entrati voi… io l’ho nascosto nell’armadio e, beh… il resto lo sapete già.»
«Quindi è stato Venti a salvare Alice», commentò Kaeya con un mezzo sorriso, gli occhi attenti a cogliere qualsiasi reazione del gruppo.
Zhongli annuì leggermente, assorto nei suoi pensieri.
«Come?» chiese Jean, sorpresa e incredula, gli occhi spalancati. Zhongli si portò una mano sotto il mento, gesto di riflessione, mentre la luce del salotto cadeva sul suo volto impassibile.
«Non ne sono del tutto certo,» spiegò infine. «Credo che abbia richiamato l’anima di Alice, che stava per trapassare, e poi abbia usato i suoi poteri temporali per riportare il suo corpo a uno stato precedente, prima che esaurisse completamente le energie.»
Jean sbuffò, incredula. «È incredibile… da quando può fare cose del genere?»
Kaeya sospirò, scrollando le spalle. «Beh… immagino che il nostro piccolo Arconte bardo sia maturato parecchio in questi mesi. Anche se, a dirla tutta, stabilizzare una persona già tra le braccia della morte è… disarmante.»
Diluc, con le braccia incrociate, aggiunse più serio: «Mi ricorda quello che stavano discutendo Ronova e Istaroth riguardo al rischio della resurrezione nel nostro universo.»
Un silenzio scomodo calò nella stanza, come un velo denso e pesante.
«Non è resurrezione,» intervenne Zhongli, la voce calma ma decisa. «In questo caso, Alice doveva ancora morire e…»
«Scusate, io esco un attimo. Ho bisogno di aria.» Interruppe Aether, alzandosi di scatto e uscendo dalla casa, lasciando un leggero rumore della porta che sbatte alle sue spalle.
«Uhm… l’ha presa davvero male,» commentò Kaeya, con un sorriso ironico che non riusciva a mascherare del tutto la preoccupazione.
«Ottima osservazione, fratello,» replicò Diluc con un filo d’ironia, gli occhi ancora fissi sull’uscita di Aether.
«Paimon, va a vedere come sta!» e la piccola fata si librò subito in aria, fluttuando velocemente verso l’uscita, determinata a raggiungere il suo migliore amico.
Zhongli sospirò, portandosi una mano al volto. «Mi dispiace averlo sconvolto così tanto… non era assolutamente mia intenzione.»
Il drago rimase qualche istante immobile, osservando le porte chiuse da cui erano usciti Aether e Paimon, riflettendo sul peso delle scelte fatte e su quanto fragile fosse l’equilibrio tra protezione e segretezza. La stanza, ora leggermente più silenziosa, conservava ancora l’eco di emozioni forti, rabbia e stupore che rimbalzavano tra le pareti, come se il salotto stesso trattenesse il respiro.
Kaeya, tuttavia, fu colui che ruppe quel silenzio teso.
«Non dateci troppo peso,» disse, con un mezzo sorriso, rivolgendosi agli altri. «Aether non è più sé stesso da un po’. Credo abbia raggiunto il limite… e forse l’ha anche superato.» poi continuo, passandosi una mano tra i capelli
«Non nego che anche io sia rimasto sorpreso nel sapere che tu stessi nascondendo Venti. Ma se è stato lui a chiedertelo, e se era per la sua sicurezza… allora capisco.»
Diluc, silenzioso fino a quel momento, aggiunse con tono fermo: «Stranamente, sono d’accordo con lui.»
Kaeya alzò un sopracciglio, sornione. «Beh, perché ho sempre ragione.»
«No,» lo corresse Diluc impassibile, «sei sempre fastidioso. È diverso.»
Kaeya scoppiò in una risata breve e maliziosa. «Forse è una dote di famiglia. Siamo fratelli, dopotutto.»
Diluc lo guardò con freddezza e disse secco: «Sei stato adottato.»
Jean si passò la mano sulla fronte, sospirando. Non era affatto il momento per battibecchi fraterni.
Kaeya, fingendosi offeso, replicò: «Diluc, questo è crudele!»
«Mh.» Rispose Diluc, ma un accenno di sorriso si fece strada sulle sue labbra, tradendo la minima soddisfazione per la reazione del fratello.
Zhongli rise di gusto, un suono profondo e rassicurante che riempì la stanza, prima di ricomporsi con la sua consueta serietà. «Beh, l’importante è che Aether stia bene e che non si vada a cacciare nei guai da solo.»
«Possiamo stare tranquilli, c’è Paimon con lui,» commentò Diluc, pronunciando le parole con una certa sicurezza, ma subito dopo ripensò a ciò che aveva detto... la sua espressione divenne leggermente incerta.
Kaeya, divertito, lo interruppe: «Ma se ha paura anche della propria ombra!»
Jean sospirò, scrollando leggermente le spalle. «Ragazzi, stiamo parlando di Paimon. Ha accompagnato Aether in tutta Teyvat. Sono sicura che sia in buone mani.»
Zhongli annuì lentamente, con lo sguardo calmo e riflessivo. «Ne sono certo anch’io. C’è molto più potere in quella piccola fata di quanto possiate immaginare.»
La frase rimase sospesa nell’aria per un attimo. Nessuno fece altre domande, e Zhongli non aggiunse altro, come se un velo di rispetto e mistero avesse improvvisamente avvolto la stanza.
Dopo qualche istante di silenzio, Jean si fece avanti, rompendo l’atmosfera sospesa. «In ogni caso… come ci dobbiamo muovere adesso?»
Zhongli rimase pensieroso per qualche secondo prima di parlare, la voce calma ma carica di gravità. «Venti si trova in una situazione molto difficile. Da un lato i Principi Celesti, dall’altro i Primordiali. In questo momento, credo che mantenere un profilo basso sia la scelta più saggia per lui.»
Jean inarcò le sopracciglia, sorpresa. «I Primordiali… rappresentano davvero una minaccia? Sono la sua famiglia, e a me sono sembrati sinceramente preoccupati per il suo benessere.»
Zhongli socchiuse appena gli occhi, come se riflettesse su parole che non poteva pronunciare del tutto.
Fu Diluc a intervenire, con tono pratico. «Mh, concordo con Jean. Forse, piuttosto che preoccuparci di complotti, dovremmo sostenerlo. Tenere d’occhio che non faccia qualche pazzia. È quello che ci hanno chiesto Ronova e Istaroth, dopotutto.»
«A proposito,» aggiunse Kaeya, appoggiandosi con nonchalance allo schienale della sedia, «hai detto di aver già parlato con Venti, giusto? Ti ha confessato qualcosa riguardo al suo piano? Ha confermato ciò che ci hanno raccontato Ronova e Istaroth?»
Zhongli rimase in silenzio più del dovuto. Stava scegliendo con cura le parole… ma, in realtà, ciò che lo frenava era un’altra cosa: non spettava a lui raccontare quel piano. Quella era la verità di Venti, ed era giusto che fosse lui a condividerla.
Eppure, Venti in quel momento giaceva privo di sensi. E Zhongli sapeva bene che un nuovo segreto avrebbe soltanto scavato altre fratture nel fragile equilibrio che li teneva ancora uniti. Così decise di parlare.
«Abbiamo parlato, sì.» La sua voce era calma, ma la tensione era palpabile. «Quello che hanno detto Ronova e Istaroth non è completamente errato… ma nemmeno del tutto corretto. È vero: Venti vuole riportare in vita Xiao e gli altri caduti. Vuole opporsi a Celestia. Proprio come ci è stato riferito.»
Un silenzio gelido calò nella stanza.
Zhongli abbassò appena lo sguardo, come a meditare, poi riprese: «Eppure, non ho visto in lui un folle impulsivo. Mi è parso… lucido. Forse più di quanto non lo sia mai stato. Mi ha detto chiaramente che non agirà finché non troverà un modo per farlo in sicurezza. Prima di tutto, vuole scoprire un sistema per aggirare le regole che governano la vita e la morte.»
Le sue parole si fecero più lente, quasi solenni. «E non è così assurdo. Tutto ha avuto origine dai Primordiali. Venti stesso è parte di quell’energia. Se diventa abbastanza forte… potrebbe davvero riuscirci.»
Per qualche secondo nessuno osò parlare. Le parole di Zhongli aleggiavano nella stanza come un peso opprimente, come se perfino le mura avessero trattenuto il respiro.
Jean fu la prima a rompere quel silenzio pesante. «Riportare in vita chi è caduto… bypassare le leggi stesse dell’universo…» scosse la testa, lo sguardo duro ma attraversato da esitazione. «Non sono una divinità come voi, sono solo una semplice mortale, ma… posso immaginare benissimo il caos che potrebbe scatenarsi quando qualcuno tenta di alterare il ciclo naturale delle cose.»
Diluc incrociò le braccia, la voce tagliente come la lama di una spada. «Non importa quanto possa sembrare lucido. È sempre e comunque un rischio. Abbiamo già visto cosa può fare Celestia a chi osa sfidarla. Io vorrei fidarmi di lui, davvero… ma tutto questo è troppo.»
Kaeya, che fino a quel momento si era limitato a osservare con apparente leggerezza, si piegò leggermente in avanti. I suoi occhi brillarono di un’ironia che non riusciva a mascherare del tutto la serietà dietro le sue parole. «Beh, se non altro, il nostro piccolo bardo non ha perso il gusto per le sfide impossibili.» Abbozzò un sorriso inclinato, ma la sua voce tradì una nota più cupa. «Però, se davvero riuscisse a fare ciò che dice… non sarebbe più soltanto il dio della libertà. Sarebbe qualcosa di molto, molto più grande.»
Jean serrò le mani dietro la schiena, come per cercare un appiglio. «Ed è proprio questo che fa paura.»
Diluc abbassò lo sguardo, la mascella tesa. «La vera domanda non è se Venti possa riuscirci. Ma se noi saremo in grado di fermarlo… o di seguirlo.»
Un silenzio glaciale tornò a stendere le sue ombre nella stanza. L’unico suono era il respiro lento e regolare di Venti e Alice che dormivano, un ritmo tranquillo eppure sinistro, come una beffa silenziosa.
Zhongli rimase immobile, lo sguardo perso nel vuoto. Poi, con voce grave e solenne, pronunciò parole che pesarono come pietre:
«Non è più tempo di chiederci se Venti stia cambiando. È tempo di capire se voi sarete dalla nostra parte… o contro di noi.»
La frase rimase sospesa, densa, insinuandosi come un presagio. Nessuno ebbe il coraggio di rispondere.
Chapter 15: Anomalia
Summary:
Eccomi com un nuovo capitolo!
Buona lettura ❣️
Chapter Text
Quando Alice riprese coscienza, il suo corpo vibrava di energia, come se quell’esaurimento mortale non fosse mai esistito. Inspirò profondamente, sorpresa dalla leggerezza dei suoi polmoni. Non avrebbe dovuto sentirsi così. Non dopo aver percepito la morte sul suo respiro.
Era confusa. Com’era possibile riprendersi così velocemente? Anzi… era quasi certa di aver oltrepassato il confine.
Poi, un ricordo riaffiorò: una voce lontana, dolce ma intensa.
Alice… se mi senti, torna da me.
Venti.
Gli occhi della strega si spalancarono. Era stato lui. In qualche modo l’aveva richiamata indietro.
Si tirò su di scatto, notando che la stanza era ormai illuminata dai raggi del sole. Per quanto tempo era rimasta priva di sensi? Giorni? Ore? Non avrebbe saputo dirlo.
Guardandosi attorno, lo vide. Accasciato proprio accanto a lei, il corpo esile di un giovane fin troppo familiare.
«Venti?» sussurrò, il cuore che le batteva più forte. Per un istante la tentazione di lasciarsi andare a quell’emozione le attraversò il petto, ma si ricompose subito. C’erano cose più urgenti.
Il bardo sembrava immerso in un sonno inquieto: la fronte corrugata, il respiro irregolare, le labbra che si muovevano appena come se mormorasse nel sonno. Forse un incubo, forse semplice stanchezza.
Alice si chinò verso di lui e lo scosse piano. «Alzati, bella addormentata.»
Venti mugugnò qualcosa di incomprensibile, tipo «lasciami stare», e con un gesto vago della mano cercò di allontanarla, quasi dandole uno schiaffo come a scacciare una mosca fastidiosa.
Alice si ritrasse appena in tempo, alzando un sopracciglio. Che maleducato…
Stringendo le labbra, decise di insistere. Questa volta lo scosse con più energia, forse troppa. «Su, devi svegliarti! Devo assicurarmi che tu sia vivo e che stia bene!»
Ma non dosò affatto la forza.
Venti rotolò giù dal letto come un peso morto, atterrando sul pavimento con un tonfo secco.
Ops.
Alice si portò una mano alla bocca, trattenendo una risata. Beh… se prima stava bene, adesso magari gli ho fatto venire un paio di lividi.
All’improvviso, un’esclamazione.
«Ma che diamine?!»
Venti si tirò su di scatto, gli occhi spalancati e le mani pronte a evocare una folata di vento. Sembrava convinto di essere stato attaccato da un nemico invisibile.
Alice lo fissava, immobile, con lo sguardo di un gufo colto in flagrante.
Il bardo, rendendosi conto della situazione, sospirò e abbassò le braccia. «Beh, che bel ringraziamento per averti salvato la vita.» Incrociò le braccia al petto e la guardò torvo.
Alice mantenne un’espressione impassibile. «Volevo solo essere sicura che non fossi morto.»
«E quindi hai deciso di buttarmi giù dal letto?» ribatté lui, sollevando un sopracciglio con finta indignazione.
La strega scrollò le spalle con assoluta calma. «Beh… ha funzionato.»
Per un istante Venti la fissò in silenzio, poi sbuffò sonoramente. Alice, invece, scoppiò a ridere, incapace di trattenersi.
Alla fine anche Venti cedette, e una risata leggera gli sfuggì dalle labbra, cristallina come una melodia improvvisata.
Alice lo osservò per un istante, il cuore che le batteva forte, e quell’emozione che aveva cercato di reprimere riaffiorò con forza. Senza pensarci troppo, si gettò su di lui, stringendolo in un abbraccio che sapeva di sollievo e paura scampata.
Venti rimase rigido per un attimo, colto di sorpresa. Poi, lentamente, si lasciò andare e ricambiò l’abbraccio, chiudendo gli occhi.
«Ho veramente temuto il peggio… pensavo fossi morto,» mormorò Alice, la voce incrinata, quasi spezzata.
Un sorriso dolce si disegnò sulle labbra del bardo. «Beh, lo sai… sono come uno scarafaggio. Puoi provare a schiacciarmi quanto vuoi, ma non muoio mai.»
Alice si scostò di poco, fissandolo con un’espressione a metà tra il divertito e l’incredulo, gli occhi ancora lucidi. «Ti sei davvero appena paragonato a uno scarafaggio?»
Venti si raddrizzò, facendo un gesto teatrale. «Certo! Ma uno di quelli belli, ovviamente. Magari verde metallizzato… e con le ali!»
Alice lo guardò impassibile per un lungo momento. Poi sospirò. «Non importa quanto tempo passi… continui a dire stronzate.»
Il bardo le sorrise a trentadue denti, come se avesse appena ricevuto il più grande dei complimenti. «Grazie!»
Alice scoppiò a ridere, questa volta senza trattenerla.
Mi eri mancato, Venti… davvero tanto.
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Intanto nell'altra stanza...
Zhongli rimase immobile, lo sguardo perso nel vuoto. Poi, con voce grave e solenne, pronunciò parole che pesarono come pietre:
«Non è più tempo di chiederci se Venti stia cambiando. È tempo di capire se voi sarete dalla nostra parte… o contro di noi.»
La frase rimase sospesa, densa, insinuandosi come un presagio. Nessuno ebbe il coraggio di rispondere.
Finché Diluc, a denti stretti, ruppe quel silenzio.
«Perché adesso ci stai trattando come dei potenziali nemici?» domandò. La voce era calma, controllata, ma nei suoi occhi c’era l’ombra del sospetto. Non poteva dimenticare che di fronte a lui c’era pur sempre un Dio, l’ex Arconte di Liyue.
Zhongli lo fissò, impassibile. «Mi sembra ovvio. Avete parlato di fermare Venti se fosse necessario. E vi assicuro che con le parole non basterà. Non l’ho mai visto così determinato in vita sua. L’unica via per fermarlo sarebbe allearsi con Ronova e Istaroth… e usare la forza.» Una pausa, i suoi occhi d’ambra che si fecero duri come pietra. «E questo non lo permetterò.»
Jean si fece avanti, il passo fermo nonostante la tensione che le attanagliava il petto.
«Credo che ci sia stato un malinteso. Nessuno di noi farebbe mai del male a Venti. È il nostro Arconte, ma prima ancora è un amico. Se dovesse imboccare una strada sbagliata, allora sì, cercheremmo di fermarlo. Ma solo per riportarlo indietro.»
Zhongli scosse lentamente la testa. La sua voce era calma, ma gelida.
«Io credo nei suoi ideali. Il cambiamento… la rivoluzione… fanno sempre paura. Sembrano caos e distruzione. Ma a volte sono necessari per smuovere ciò che è marcio. È così che l’universo evolve. È così che si sopravvive.»
Un silenzio teso calò di nuovo...pesante e carico di tensione.
Kaeya sospirò, passando una mano tra i capelli. «Venti è un mio caro amico. Gli devo tutto quello che sono oggi. Quindi lo difenderò, anche a costo della mia vita. Ma, in quanto suo amico, devo anche assicurarmi che non faccia sciocchezze. Non voglio sembrare inopportuno… so che tu hai molta più esperienza di noi, ma Zhongli, qui non stiamo parlando solo di “ideali”. Stiamo parlando di riscrivere le regole su cui si regge il nostro universo. È qualcosa di enorme, non solo per noi mortali, ma anche per te. Potrebbe far collassare ogni cosa.»
Gli occhi di Zhongli si persero nel vuoto, come se stesse riflettendo su un orizzonte lontano e inaccessibile. Poi tornò a fissare Kaeya negli occhi, la sua espressione imperturbabile ma carica di gravità.
«Hai ragione,» ammise infine. «È qualcosa di più grande di noi… ma non per lui. La sua specie ha posto le basi di tutto; potrebbe essere in grado di riscriverle, con il giusto allenamento. Se credete veramente in lui, dovreste appoggiarlo. Se è davvero vostro amico, dovrete accompagnarlo, non ostacolarlo.» La voce di Zhongli era fredda, ma ferma, senza spazio per replica.
Kaeya strinse leggermente le labbra, poi lo sfidò con uno sguardo acuto. «Sicuro che tu non lo stia appoggiando solo per riportare in vita Xiao?»
La stanza si fece improvvisamente silenziosa, carica di tensione. Anche il respiro sembrava trattenuto. Gli occhi di Zhongli si indurirono, e un sussurro gelido sfuggì dalle sue labbra, quasi un ringhio: «Come scusa?»
Kaeya spalancò gli occhi, pronto a ribattere, «io—»
Ma prima che potesse pronunciare la frase, due figure emersero dal corridoio. Tutti si voltarono di colpo.
Alice e Venti erano lì, sani, svegli, e stranamente leggeri nei loro movimenti, come se la tensione della stanza non li toccasse minimamente.
Venti sorrise, spingendo un’occhiata complice e facendo finta di non notare l’atmosfera tesissima. «Hey ragazzi, è bello rivedervi!»
Il silenzio si spezzò di colpo, lasciando spazio a un mix di sollievo e incredulità. Tutti realizzarono, in quel momento, quanto fosse fragile il confine tra amicizia, fiducia e responsabilità, e quanto fosse sottile il filo sul quale stavano camminando.
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Aether camminava senza meta da chissà quanto tempo. Onestamente, nemmeno lui sapeva quanto.
Si sentiva perso, alienato, assente. Il suo corpo era lì, tra le strade e le ombre, ma la mente sembrava sospesa altrove, lontana, intrappolata in un luogo che nessuno poteva raggiungere.
Paimon lo seguiva silenziosa, tenendosi poco distante. Aveva provato a parlargli più volte, ma Aether non rispondeva. La fatina era sinceramente preoccupata. La sua preoccupazione cresceva a ogni passo silenzioso, mentre osservava il suo migliore amico camminare come uno spettro, senza meta, senza scopo apparente.
Negli ultimi anni aveva passato così tanto. La vita gli era stata strappata brutalmente dalla mano di sua sorella, portandolo lontano da tutto ciò che conosceva. Si era risvegliato in un mondo sconosciuto, costretto a combattere e risolvere le crisi di ogni nazione, spesso fino allo stremo, ferendosi fisicamente e mentalmente.
Aveva dedicato mesi alla ricerca di sua sorella, solo per scoprire che era diventata il capo dell’Abisso, il nemico stesso che lui cercava di distruggere. Non solo: lei aveva rapito e torturato uno dei suoi amici più cari.
Il colpo finale era arrivato con l’attacco di Celestia e l’apparente morte di Venti. Era stata la goccia che aveva fatto traboccare un vaso già colmo di dolore e stanchezza.
Aether era arrivato al limite, allo stremo delle sue forze mentali. Ogni fibra del suo corpo urlava di fermarsi, di smettere di combattere, eppure i suoi passi continuavano a seguirlo, meccanici, privi di scopo.
Era stanco. Così stanco. Stanco di lottare, di correre, di portare sulle spalle i problemi di tutti gli altri, mentre la sua vita sembrava bloccata in una spirale infinita. Ogni tentativo di andare avanti si scontrava con ostacoli insormontabili, ogni vittoria era seguita da nuove responsabilità.
Era come essere intrappolato in un ciclo senza fine, un turbine che lo risucchiava sempre più in profondità, senza via di fuga, senza un attimo di pace.
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Istaroth era immersa nella biblioteca del Dominio, circondata da pile di libri aperti, pergamene sparpagliate sul pavimento e annotazioni scarabocchiate ovunque. Ogni pagina che sfogliava era un tentativo di penetrare il mistero dell’incantesimo che Venti si era autoimposto, quell’astuzia silenziosa che lo rendeva praticamente invisibile e irrintracciabile persino per loro.
La frustrazione le serrava lo stomaco. Non riusciva a credere a quanto quel ragazzo, con così poca esperienza e ancora così giovane, fosse riuscito a metterla in difficoltà. Era come se la sua mente, veloce e imprevedibile, avesse trovato varchi dove lei nemmeno osava cercare. Un brivido gelido le attraversò la schiena: non era solo ammirazione, era anche paura. Paura di ciò che Venti sarebbe potuto diventare se avesse avuto il tempo di crescere senza limiti.
E in quel pensiero riaffiorò il ricordo di suo padre. Forse aveva ragione quando le diceva che erano delle fallite. Sempre così rigido, sempre così intransigente, pieno di sé e incapace di mostrare affetto. Istaroth lo aveva odiato per questo, odiato per quella freddezza che le aveva fatto sentire ogni sua fragilità come un errore imperdonabile. All’inizio aveva solo desiderato amore e approvazione, come tutte le sue sorelle. Poi, poco a poco, si era arresa. Aveva capito che nulla di ciò che avrebbe fatto sarebbe stato sufficiente, che rispetto alla vastità dell’universo, all’infinita marea di energie e forze che governano tutto, l’amore e l’affetto erano solo ombre insignificanti.
Eppure, nonostante questa consapevolezza, il peso delle proprie emozioni era ancora lì. La preoccupazione, l’ansia, la sensazione di impotenza: tutto tornava a galla in un istante, un promemoria crudele della sua umanità.
I suoi pensieri furono brutalmente interrotti dal rumore secco di una porta sbattuta.
«Abbiamo un problema. Un grosso problema.» Era Ronova. La sua voce non ammetteva repliche, e lo sguardo teso tradiva la gravità della situazione.
«Cos’è successo?» chiese Istaroth, la voce appena un sussurro. Già avevano abbastanza problemi, e sperava che almeno questa fosse una questione minore rispetto agli altri disastri che stavano affrontando.
Ma guardando il volto teso di Ronova capì subito che non era così.
«Alice stava morendo», iniziò Ronova, la voce grave e tesa. «Ero pronta ad accogliere la sua anima… ma qualcuno è riuscito a intrufolarsi e riportarla indietro.»
Istaroth sgranò gli occhi.
Cosa?
«La cosa più grave?», continuò Ronova, stringendo le mani a pugno. «È che non era possibile per lei rimanere nel suo corpo attuale. Era ormai un involucro insensibile, privo di energia vitale. Sai cosa significa questo?»
Istaroth abbassò lo sguardo, un brivido le percorse la schiena, e con un sussurro disse: «Che qualcuno è riuscito a recuperare il suo corpo e a renderlo idoneo per farvi rientrare l’anima di Alice.»
Ronova annuì, confermando con uno sguardo severo.
«E avevi insegnato a Venti a usare l’abilità temporale solo su un oggetto, un animale o una persona, giusto?» chiese Ronova.
Istaroth fece un cenno affermativo. La stanchezza, la frustrazione e l’incredulità le annebbiano la voglia di parlare. Non aveva più la forza di articolare molte parole.
«Bene», continuò Ronova, la voce ancora più grave. «Allora sappiamo chi è stato. Alice era sua amica… e Venti è abbastanza folle e disperato da fare una cosa del genere.»
Un silenzio pesante calò nella stanza, come se persino il tempo trattenesse il fiato.
«Istaroth, controlla la linea temporale», disse Ronova infine, la voce tagliente come un bisturi. «Credo che Venti abbia causato un’anomalia. Alice sarebbe dovuta morire, e invece non l’ha fatto. Questa cosa… è gravissima. Venti ha cambiato il suo destino.»
All’istante, Istaroth si raddrizzò, gli occhi che si illuminarono di una lucidità feroce. Aveva ragione Ronova: Venti probabilmente aveva appena creato un’anomalia temporale di enorme portata. La rilevanza di Alice a Teyvat rendeva tutto ancora più pericoloso.
Si avvicinò alla clessidra al centro della stanza, il ticchettio regolare che fino a poco prima le era sembrato rassicurante ora suonava come un monito inquietante. I filamenti d’oro fluttuavano in armonia intorno alla clessidra, riflettendo la luce del sole come a cercare di mascherare l’irreparabile.
Ma sopra di essa, una cosa catturò il suo sguardo e le fece gelare il sangue nelle vene: una crepa, sottile ma profonda, che attraversava il vetro come una cicatrice nell’invisibile tessuto del tempo stesso.
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